Iraq, la guerra di al Qaeda eredità Usa | Giuliana Sgrena
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Iraq, la guerra di al Qaeda eredità Usa

Al Qaeda occupa l''Iraq sunnita e punta sulla raffineria di Baiji per mettere in ginocchio il governo dello sciita al Maliki.'

Iraq, la guerra di al Qaeda eredità Usa
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24 Giugno 2014 - 20.04


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Chi uscirà vincitore (se di vittoria si potrà parlare) dal sanguinoso scontro in corso in Iraq? A trarne vantaggio saranno comunque solo i nemici del popolo iracheno. Innanzitutto gli Stati uniti, che hanno risposto alle richieste di aiuto di Baghdad con la promessa di inviare agenti (intelligence) e di bombardare i convogli dello Stato islamico in Iraq e nel Levante (Isil), meglio con droni per evitare perdite. I più scettici sull’operazione bombardamenti sono i militari Usa, in particolare il capo di stato maggiore, il generale Dempsey, perché gli obiettivi sono estremamente mobili. E il rischio di ingenti «danni collaterali» potrebbero rappresentare un boomerang per Obama.

A proposito dell’intelligence mericana è lecito chiedersi come mai con tutti i mezzi a disposizione e con gli occhi puntati sulla Siria finora non si sia accorta di quello che stava avvenendo nel paese vicino nemmeno più diviso da frontiere. O forse ha visto e ha ritenuto che si poteva ben sacrificare l’Iraq in cambio di un allentamento delle pressioni qaediste in Siria.

Nessuno si meraviglierebbe, non sono forse gli Usa i responsabili della distruzione dello stato iracheno con l’occupazione del 2003? E non sono stati ancora gli Usa a fomentare la contrapposizione tra componenti etnico-confessionali fin dalla prima guerra del Golfo quando furono create le no-fly zone? Ma in questo mondo senza memoria nessuno risale mai alle cause dei conflitti e delle sue degenerazioni. Ora gli iracheni fanno appello agli Usa, non perché paghino il prezzo delle loro distruzioni ma perché proteggano gli effetti della loro débâcle.

Il paradosso è che il governo di al Maliki ora è messo sotto accusa non solo dagli iracheni (persino da alcuni gruppi sciiti) ma anche dagli americani. Forse la sua maggiore colpa è quella di aver perseguito in modo ottuso quelle che erano le indicazioni della de-baathizzazione.
Era stato Paul Bremer, il primo pro-console americano, a voler escludere dalle istituzioni tutti coloro che avevano fatto parte del partito Baath. E si sa, in un regime a partito unico tutti coloro che avevano un impiego pubbli- co dovevano essere iscritti. Così erano stati svuotati i ministeri, le industrie di proprietà dello stato, i tecnici dell’industria petrolifera, rimasta bloccata per anni. Un’operazione dissennata che aveva demolito le istituzioni, escluso la componente confessionale favorita da Saddam – i sunniti – e bruciato una generazione. Giovani ingegneri – la popolazione irachena era molto istruita – venivano licenziati e pensionati (non ancora trentenni) con 100 dollari al mese!
C’era voluta la minaccia di al Qaeda, una prima volta nel 2006, per convincere il generale Petraeus che non poteva fare a meno dei sunniti per eliminare i gruppi jihadisti. Allora si erano formati i gruppi del Risveglio che avevano cacciato al Qaeda, ma non l’avevano eliminata, si era solo spostata a nord verso Mossul.

Gli sciiti quando hanno conquistato l’agognato potere dal quale Saddam li aveva esclusi, anche se non in modo così selettivo – allora c”erano anche generali e ministri sciiti e persino un ministro cristiano -, hanno applicato la discriminzione al contrario. Senza un”adeguata preparazione non è facile riscostruire uno Stato e non sono bastati i consiglieri iraniani, che avevano persino occupato un intero piano al ministero degli interni.

Il modello dei pasdaran non è accettabile dagli iracheni che hanno sì subito anni di dittatura ma almeno lo stato era laico. E non è bastato l’autoritarismo e la repressione di al Maliki per imporre l’ordine in un paese dove ora la nota predominante è la corruzione.

In questo quadro i kurdi si sono sempre più allontanati dal potere centrale pur facendone parte, rafforzando la loro autonomia con la rendita del petrolio recentemente scoperto. Lo scontro sulla rendita petrolifera, i cui ricchi proventi dovrebbero andare al governo centrale e poi essere suddivisi in base a quote stabilite in rapporto alla popolazione, ha contrapposto i kurdi a Baghdad, perché non hanno versato i loro incassi, e i sunniti a Baghdad, perché il governo non ha corrisposto la quota dovuta. Peraltro con questa crisi la produzione sta crollando per il ritiro del personale da parte di alcune compagnie straniere, come la Exxon Mobile, la Bp e soprattutto la Pe- trochina che sfrutta i giacimenti più importanti.

Il ritorno di al Qaeda è stato favorito, oltre che dall’internazionalizzazione del conflitto siriano, dall’esasperazione delle zone sunnite contro il governo di al Maliki. E saranno i sunniti a pagare il duro prezzo dell’appoggio dato ad al Qaeda quando cominceranno i bombardamenti. Oltre alle bombe sarà la legge coranica in versione qaedista a seminare vittime.

L’Iran riuscirà nel tentativo di assumersi la parte più sporca dello scontro in Iraq – per evitare una guerra civile – in cambio di un accordo con gli Usa sul nucleare? Questa è la carta che sta giocando il presidente Rohani, in quanto il controllo dell’Iran sull’Iraq era già ampiamente affermato attraverso il governo al Maliki, questa nuova crisi ha solo permesso l’arrivo ufficiale delle Guardie della rivoluzione a protezione dei luoghi santi.

L’Isil si spingerà fino a Baghdad? Improbabile, la maggioranza della popolazione nella capitale è sciita e i qaedisti preferiscono combattere dove le condizioni sono migliori e se riusciranno a tenere sotto controllo la raffineria di Baiji, la più grande dell’Iraq, metteranno in ginocchio al Maliki senza entrare a Baghdad.

il manifesto 21 giugno 2014

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