Algeria, una finestra aperta sul mondo

L'undicesimo Festival internazionale del cinema di Algeri ha riaperto le porte alle sale dopo la chiusura per Covid. Molto interesse per i film e dibattiti. Focus su Memoria e Resistenza a 60 anni dall'indipendenza.

Algeria, una finestra aperta sul mondo
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Giuliana Sgrena Modifica articolo

17 Dicembre 2022 - 19.12


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L’undicesima edizione del Festival internazionale del cinema ad Algeri  (2-10 dicembre 2022) è stata per gli algerini una finestra sul mondo, dopo tre anni di interruzione dovuta al Covid.

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«Il Festival è destinato al pubblico», ha esordito Zehira Yahi, commissaria dell’iniziativa, concludendo le nove giornate di immersione in film e dibattiti. «Mi voglio riferire all’appello del Primo novembre 1954 (con il quale il Fronte di liberazione nazionale aveva lanciato la guerra di indipendenza) che cominciava così: “A voi che siete chiamati a giudicarci”. Noi lavoriamo per il pubblico… non ci sono praticamente occasioni di vedere film che provengono dappertutto: Gran Bretagna, Canada, Ruanda, Svezia, America del sud… Questa è la cosa più importante. Si tratta di aprire finestre sul mondo». E per aprirle occorre molto impegno da parte della commissaria e del direttore artistico, Ahmed Bedjaoui, che hanno sfidato ancora una volta i molti ostacoli, innanzitutto il finanziamento dell’iniziativa che è diminuito e non solo per l’inflazione, recuperare tutti i film selezionati con meticolosità tra le proposte che in tre anni si sono accumulate, seguire gli umori degli artisti quando si scontrano con problemi tecnici. Problemi affrontati con meticolosità da Zehira Yahi e Ahmed Bedjaoui che da anni si occupano con grande passione e impegno di questo appuntamento con il cinema impegnato. Che non è una finestra sul mondo solo per gli algerini, ma anche per noi che, in passato come ora, abbiamo l’opportunità di vedere dei film che non avremo altra occasione di vedere. Fiction, corti e lungometraggi, documentari, recenti o riscoperti negli archivi. Un alternarsi di immagini che ci portano al presente attraverso la memoria.

La pandemia ha penalizzato il cinema e i suoi fruitori ma ha anche aumentato l’interesse a partecipare a riti collettivi. Che non si sono esauriti solo nelle visioni cinematografiche ma anche nei vari focus. Particolarmente discusso quello dedicato alla «memoria & resistenza» attraverso la riscoperta di archivi e restauro di film storici che si è svolto nella sala della storica cinémathèque, inaugurata nel 1964 e considerata la «Mecca del cinema» negli anni ’60. Archivi storici cui hanno contribuito anche registi italiani come la famosa Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo e il meno noto ma molto apprezzato Les mains libres di Ennio Lorenzini, recentemente restaurato, al quale è dedicato l’ultimo numero degli annali dell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico (Aamod). Quello della memoria e della resistenza è un tema reso estremamente attuale dalla celebrazione dei 60 anni dall’indipendenza algerina (5 luglio 1962), ma non ha riguardato solo l’Algeria. In un approccio più aperto al mondo dei popoli ancora oggi oppressi si riscopre l’internazionalismo dell’Algeria che affonda le sue radici negli anni 60 e nella celebrazione del cinema panafricano del 1969. In primo piano, come del resto nelle altre edizioni del Festival, la Palestina, con proiezioni come Youm el ardh (Il giorno della terra) di Monica Maurer, o il Sahara occidentale con Wanibik (di Rabah Slimani), il popolo che vive di fronte alla sua terra. Il sostegno al Fronte Polisario per l’indipendenza del Sahara occidentale dal Marocco e ai profughi sahrawi rifugiati in Algeria non è una novità, ma il film ci ha fatto scoprire una scuola di cinema (gli allievi ne sono i protagonisti) creata in un territorio così inospitale, per il clima e le condizioni di vita, per mantenere la memoria e la cultura di un popolo ancora colonizzato. Sui sahrawi dei campi non pesa solo il Muro costruito dal Marocco per isolarli, ma anche la siccità, la pandemia e le illusioni di chi propone evasioni dalla realtà con la droga o canoni di bellezza estranei ed estranianti che inducono le donne a schiarirsi la pelle con prodotti pericolosi (corto di Ahmed Mohamed Lamin: «El precio de la belleza»). Il focus «femmes» oltre a un ricco dibattito ci ha riservato ricostruzioni del confronto tra diverse generazioni nel loro rapporto con il paese d’origine, ma soprattutto colpi nello stomaco con le immagini della violenza contro le donne che non conosce confini.

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E poi naturalmente i film algerini. Le idee e i registi che le traducono in immagini sono una ricchezza in netto contrasto con la crisi del cinema algerino (una morte annunciata, per scelte sbagliate, fatte in nome di un «socialismo ibrido», alla fine degli anni ’60, secondo Ahmed Bedjaoui). Tra i registi algerini Omar Belkacem che con il suo «Nos frangins» (I nostri fratelli), rappresenterà il cinema algerino agli Oscar. La fiction racconta dell’uccisione di due ragazzi di origine algerina, Malik e Abdel, uccisi dalla polizia francese nella stessa notte tra il 5 e il 6 dicembre 1986.

Un compito difficile per le diverse giurie (corti e lungometraggi, fiction) scegliere tra tante proposte ma sicuramente è stato un compito gratificante, che si è aggiunto a quello del pubblico, diviso anch’esso in tre sezioni. Tra i premiati, provenienti da vari paesi del globo, il regista palestinese Ameen Nayfeh con «200 metres» (200 metri) non ha potuto raggiungere Algeri perché bloccato inspiegabilmente all’aeroporto di Istanbul. Ha invece ricevuto una menzione speciale l’ong di Ramallah Shashat (schermi) che promuove la produzione di registe palestinesi, rappresentata da Dina Amin con Vine leaves (Foglie di vite).

Delusione per la mancata anteprima del film La dernière reine d’Alger (l’ultima regina), che doveva concludere il Festival. Motivo: il ministero della cultura ha rivendicato il diritto di anteprima per un film finanziato dallo stesso ministero. Non è certo di buon auspicio per il rilancio del cinema algerino promesso dal ministero.

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