L’annullamento ufficiale delle elezioni convocate per il 4 luglio prossimo da parte del Consiglio costituzionale non ha sorpreso nessuno in Algeria. Domenica 2 giugno il Consiglio costituzionale ha accertato «l’impossibilità di tenere le elezioni presidenziali», dopo aver respinto le uniche due candidature presentate da due personaggi sconosciuti. Il motivo non è stato rivelato ma le voci che circolavano da giorni riguardavano la mancanza delle firme necessarie per la candidatura. Le elezioni non erano realizzabili non solo per mancanza di candidati ma anche perché numerosi giudici e amministratori locali avevano annunciato la loro intenzione di non farsi garanti del voto.
La soddisfazione delle forze di opposizione per l’annullamento delle elezioni è accompagnata dalle preoccupazioni per il futuro. Ancora una volta si fa appello a una costituzione, che non può rispondere alle esigenze di un popolo che chiede cambiamenti radicali, affidando al capo di stato ad interim il compito di organizzare il nuovo scrutinio. Non solo con questa indicazione il Consiglio costituzionale si arroga una decisione che non gli compete e che peraltro non può essere attribuita alla costituzione che non prevede l’annullamento di elezioni. Un gruppo di otto partiti, riuniti lunedì ad Algeri, ha respinto la «fatwa» costituzionale che prolunga senza limite il mandato del capo di stato ad interim Abdelkader Bensalah
Tuttavia il tentativo del potere, gestito dopo le dimissioni di Bouteflika dal capo di stato maggiore Ahmed Gaid Salah – che aveva in un primo tempo affermato di essere il garante dei manifestanti – è quello di accreditare un bouteflikismo senza Bouteflika, continuando ad agire nell’ombra con la repressione e l’intimidazione. L’arresto di numerosi esponenti della politica mostra le vere intenzioni di Salah che vuole eliminare gli oppositori – anche quelli che hanno fatto parte del clan Bouteflika o comunque del vecchio regime – con i metodi di sempre sperando nell’usura del movimento. Ma l’impasse finirà per logorare gli apprendisti stregoni.
Non solo la piazza è contro le due B – il presidente ad interim Bensalah e il capo del governo Bedoui – ma si sbizzarrisce nelle gag contro quello che viene chiamato «sergente Garcia» (il capo di stato maggiore Gaid Salah). Senza carisma ed espressione del vecchio regime come i suoi rivali, non è certo il personaggio credibile per trattare con il movimento che da 100 giorni occupa le piazze di tutte le città algerine sfidando la fame, la sete e il caldo di questo mese di Ramadan.
Il movimento 22 febbraio, dopo la prova di forza dimostrata in questi mesi e aver ottenuto le dimissioni di Bouteflika e l’annullamento delle elezioni del 18 aprile, passa alla fase propositiva.
Tre collettivi (la Confederazione dei sindacati indipendenti, il Forum civile per il cambiamento e il Collettivo della società civile per una transizione democratica) si sono riuniti tre volte e sabato hanno lanciato per il 15 giugno la prima conferenza della società civile. «Cosciente dell’importanza del suo ruolo quale attore per la concretizzazione delle rivendicazioni del movimento popolare, la società civile fa appello all’insieme delle forze attive a sostenere la sua iniziativa e ad adoperarsi per la sua riuscita», si legge nel comunicato diffuso alla fine della riunione.
I tre collettivi sottolineano anche l’importanza di costruire «una transizione democratica flessibile che consacrerà la rottura con il sistema dittatoriale e corrotto mettendo un termine alle buffonate delle frodi elettorali al fine di avviare l’edificazione di istituzioni legittime e credibili».
I tre collettivi che hanno indetto la conferenza costituiscono una importante rappresentanza della società civile organizzata nei sindacati, delle associazioni e ong più attive nel paese.
Il rapporto complicato con i partiti si aprirà in una seconda fase, ma solo con quelli che non hanno avuto rapporti con il regime.
Gli organizzatori della conferenza del 15 giugno apprezzerebbero un gesto di pacificazione dei responsabili del potere. Non si può fare appello al dialogo e nello stesso tempo mettere in carcere gli oppositori del regime. Sabato si sono svolti i funerali di Kamel Eddine Fekhar, dopo 50 giorni di sciopero della fame. La morte del dottore di Ghardaia che difendeva i diritti dei mozabiti ha suscitato molta commozione e ha risollevato il problema dei detenuti politici. Meno di due anni fa era successa la stessa cosa al giornalista Mohamed Tamalt. Incarcerati per le loro opinioni come il blogger Abdellah Benaoum (che potrebbe essere stato liberato proprio mentre scriviamo), il generale in pensione Hocine Benhadid e la segretaria generale del Partito dei lavoratori, Louisa Hanoune, che rischiano di perdere la vita per le precarie condizioni di salute.
il manifesto 4 giugno 2019