La Tunisia non è l’Algeria, qui la popolazione non rinuncerà mai a quella laicità che fa ormai parte del suo Dna, mi diceva Khadija, un’amica alla vigilia delle elezioni tunisine (ottobre 2011). Ora, l’amica di Manouba (periferia di Tunisi), dove l’università è chiusa dal 6 dicembre, sequestrata dai salafiti, comincia ad avere qualche dubbio. Per non parlare dell’Egitto, dove la rivoluzione ha fatto cadere Mubarak, ma la transizione è affidata ai militari e parlare di processo di democratizzazione è sicuramente azzardato. In queste condizioni anche le elezioni egiziane non sono certo state un primo passo verso la democrazia.
Tutte le forze rivoluzionarie e democratiche, o quasi, avranno scarsa rappresentanza in parlamento. Dopo una rivoluzione laica sono gli islamisti a vincere le elezioni,“moderati” ed estremisti. Questa è la democrazia, dicono i tunisini, anche se cominciano a crescere i timori sugli obiettivi non dichiarati degli islamisti. Dopo i primi assalti dei salafiti tunisini alle caserme il paragone con il caso algerino non pare così azzardato.
Eppure sembra che l’esperienza algerina non abbia insegnato niente ai paesi vicini. mentre gli algerini, i democratici, più sensibili alle rivoluzioni/rivolte arabe, avevano pensato di poter approfittare di questo vento rivoluzionarie per abbattere anche il loro regime. Ma il regime algerino si è dimostrato ben più preparato a far fronte alle rivolte del 2011 grazie all’esperienza maturata fin dal 1988 quando era scoppiata la prima grande rivolta, spacciata come una rivolta del cous cous, mentre in realtà rivendicava giustizia e democrazia, seguita dalle grandi mobilitazioni berbere. Quindi quando, nel febbraio dello scorso anno, sono iniziate le prime convocazioni per manifestazioni di massa – mentre rivolte locali erano già in corso in tutto il paese così come scioperi che paralizzavano interi settori – il governo ha fatto scendere in piazza le proprie forze antisommossa che hanno impedito fisicamente i concentramenti. Non è stato necessario sparare sui rivoltosi, un po’ di botte e un interrogatorio in caserma e poi via. E per evitare la protesta bastava convincere chi voleva scendere in piazza a desistere promettendo alloggi e posti di lavoro. E questa volta non sono state solo promesse. Il potere algerino se lo può permettere con i forti introiti del petrolio. Non siamo più nel 1988 quando la rivolta seguiva il crollo del prezzo del petrolio.
Alla rivolta algerina del 1988 gli islamisti non avevano partecipato, ma dopo l’arresto da parte del regime di tutti gli organizzatori della lotta e dello sciopero – sindacalisti e militanti della sinistra – il leader dei fondamentalisti islamici Ali Benhadj riusciva ad inserirsi e a cavalcare la rivolta. Il seguito è noto: vittoria elettorale degli islamisti, prima alle amministrative e poi al primo turno delle legislative e interruzione del processo elettorale da parte dei militari.
Come si vede la situazione non è poi così diversa da quello che sta succedendo in Tunisia e in Egitto anche se i vent’anni trascorsi dalla precipitazione della situazione algerina fanno la differenza.
Ma vale la pena ricordare quegli avvenimenti che ormai persino molti giovani algerini hanno solo sentito raccontare dai genitori che si dividevano tra “éradicateur” (che volevano escludere gli islamisti) e riconciliatori (che li volevano includere).
Vent’anni fa, l’AlgeriaL’11 gennaio del 1992 l’esercito algerino prendeva il potere e costringeva l’allora presidente Chadli Benjedid a dimettersi. Il “golpe bianco” o “golpe legale”, come è stato definito in Algeria, doveva impedire la presa del potere da parte del Fis (Fronte islamico di salvezza, che aveva ottenuto la maggioranza dei voti al primo turno delle elezioni legislative il 26 dicembre 1991) interrompendo il processo elettorale. Sicuramente un atto di forza condannabile e condannato, ma fortemente sostento dai democratici e soprattutto dalle donne democratiche algerine che volevano scongiurare una caduta dell’Algeria nella teocrazia stile Iran o Sudan.
Il potere veniva affidato dai militari a un Consiglio supremo di stato insediato il 16 gennaio e presieduto da Mohammed Boudiaf, uno dei padri della patria che aveva lasciato da anni il paese e viveva in esilio in Marocco. Al suo rientro in Algeria aveva incontrato un forte sostegno dalla popolazione algerina perché non si limitava a combattere il fondamentalismo islamico del Fis ma anche la corruzione che regnava nel paese.
Le stesse elezioni non erano avvenute in un clima di libertà come, soprattutto in occidente, si voleva far credere. Ero ad Algeri in quel periodo e avevo avuto modo di seguire il voto in vari seggi, tutti controllati dagli islamisti che nel 1990 avevano già vinto le elezioni amministrative e quindi potevano (anche se non avrebbero dovuto) utilizzare per la loro campagna elettorale i mezzi a disposizione dei comuni. Gli algerini avevano quindi avuto modo di provare la gestione amministrativa del Fis e di vedere che non aveva posto fine alla corruzione, l’aveva solo indirizzata a proprio beneficio. I soprusi degli islamisti erano continuati fino ad arrivare a non distribuire le schede elettorali nei quartieri ritenuti più ostili ai fondamentalisti.
All’entrata dei seggi vi erano gruppi di barbuti che intimidivano i votanti, controllavano il voto (in Algeria ogni partito ha una scheda, quindi per dimostrare chi avevi votato dovevi portare fuori tutte le schede dei partiti non votati), i maschi potevano votare al posto delle donne di famiglia (i seggi riservati alle donne erano pieni di uomini) e soprattutto il Fis non candidava donne e quindi il parlamento eletto non sarebbe stato rappresentativo della metà della popolazione e dell’elettorato. E non lo sarebbe stato anche perché al primo turno, quello del 26 dicembre, il Fis aveva ottenuto il 47,27 dei voti ma avevano votato solo il 52,02 degli aventi diritto. Naturalmente anche l’astensione era un voto contro l’ex partito unico, il Fln, ma non a favore del Fis.
Questo non significa necessariamente che i militari hanno fatto bene ad intervenire ma serve a confutare la tesi di coloro che hanno sostenuto che quelle annullate erano state le prime elezioni democratiche dell’Algeria.
Mohammed Boudiaf aveva il sostegno della popolazione ma non di molti poteri forti che si sentivano colpiti dall’azione del presidente, che il 4 marzo aveva messo fuori legge il Fis. Il 29 giugno il presidente Boudiaf viene assassinato ad Annaba. Finisce così la speranza di poter far uscire il paese dall’incubo del fondamentalismo e della corruzione. E anche la speranza che, nonostante la supremazia dei militari, si potesse avviare il paese verso la democrazia.
Da quel momento la situazione precipita. Il 15 luglio i due leader del Fis, Madani e Benhadj, sono condannati a 12 anni di carcere per attentato alla sicurezza dello stato.E il 26 agosto il primo grande attentato all’aeroporto di Algeri provoca 9 morti e 128 feriti. Occorre precisare che il braccio armato del Fis, l’Esercito islamico di salvezza, non aveva atteso le elezioni per compiere i primi attentati, c’era già stato un attacco alle guardie di frontiera nel 1989 e, prima ancora, fin dal 1982 esisteva in Algeria il gruppo armato di Bouyali, smantellato solo nel 1987, ma i cui uomini si erano riciclati nei nuovi gruppi armati formati in gran parte dai reduci dell’Afghanistan, che volevano portare il “jihad” (guerra santa, combattuta contro i sovietici) anche in Algeria.
Decennio neroInizia così un decennio nero per l’Algeria e per gli algerini, principali vittime del fondamentalismo islamico e anche della repressione dell’esercito. Le categorie prese di mira dai Gruppi islamici armati (Gia, che raccoglie diversi gruppi, che andranno assumendo negli anni diverse sigle) sono prima gli intellettuali e i giornalisti, poi insegnanti, parrucchiere, donne che non portano il velo, stranieri, funzionari, militari, fino ad arrivare a colpire nel mucchio con gli attentati più sanguinari. Si parla di circa 200.000 vittime, ma è difficile avere dati certi.
Nel conflitto algerino interviene anche la Comunità di sant’Egidio che dopo aver riunito a Roma – a novembre 1994 e poi a gennaio 1995 – diversi esponenti del panorama politico (Fis compreso) riesce a far sottoscrivere un Contratto di Roma, la cui soluzione si basa sulla rilegittimazione del Fis. L’iniziativa, fortemente osteggiata dalle forze democratiche e nazionaliste algerine, viene sostenuta dal Fronte di liberazione nazionale (Abdelhamid Mehri, segretario del Fln che dovrà dimettersi dopo la firma per l’opposizione del partito), dal Fronte delle forze socialiste (Hocine Ait Ahmed, socialdemocratico), dal Movimento per la democrazia in Algeria (Ben Bella), dal Partito dei lavoratori (trotzkista. guidato da Louisa Hannoune), da Hamas (Mahfoud Nahnah), da En-nahda (Abdallah Djaballah) e da Anouar Haddam in nome del Fis. Haddam rappresentava il governo costituitosi in esilio: aveva ottenuto asilo politico a Washington, da dove rivendicava gli attentati del Gia in Algeria. Il Contratto di Roma, che non ha mai avuto seguito, comprendeva anche “l’applicazione della legge legittima” che nella versione araba era citata come “sharia”.
Senza entrare nei particolari, nel 1996 l’Algeria torna alle elezioni ed elegge alla presidenza il generale Zeroual. Durante la sua presidenza inizia un negoziato tra l’esercito e il braccio armato del Fis, l’Ais (Esercito islamico armato), che arriverà a compimento con la Legge sulla concordia civile sottoposta a referendum nel settembre 1999 da Abdelaziz Bouteflika, eletto presidente nell’aprile dello stesso anno e rieletto nel 2004. La Concordia civile, detta anche legge del perdono, entrata in vigore il 13 gennaio del 2000, ha permesso la liberazione con amnistia di migliaia di islamisti e terroristi. Le vittime del terrorismo sono invece rimaste senza giustizia e senza nemmeno un risarcimento morale. L’amnistia concessa dopo un processo sarebbe stata diversa, almeno si sarebbero riconosciuti i colpevoli, invece così i massacri sono rimasti senza responsabili. In questo modo anche i crimini commessi dai militari sono rimasti impuniti, non a caso i militari hanno approvato la legge del perdono. Gli amnistiati spesso sono stati reintegrati nei loro posti di lavoro e hanno potuto utilizzare i “bottini di guerra” (beni e soldi accaparrati durante gli attacchi ai villaggi). Il fatto che la giustizia non avesse accertato le loro responsabilità ha permesso loro di continuare a perseguitare le vittime, non più con le armi ma con l’arroganza e la loro visione integralista dell’islam.
Comunque gli algerini stanchi di sangue e massacri hanno votato in massa a favore della legge per il perdono con la speranza o l’illusione che riportasse la pace. Ma con il perdono non è stato risolto il problema di fondo, alla base del conflitto: la contrapposizione tra due Algerie, una democratica che credeva nella separazione tra stato e religione e l’altra, sostenitrice degli islamisti, favorevole a un regime teocratico. Il problema è stato solo rinviato, ma la violenza è senza dubbio diminuita, anche se sono rimaste frange di terrorismo residuale. La più estremista è finita in al Qaeda Maghreb.
Bouteflika ha avuto il merito di proporre questa riconciliazione e per questo è stato riammesso nella comunità occidentale dopo un lungo isolamento dell’Algeria in nome del “qui tue qui”, alimentato soprattutto dalla Francia che accusava di tutti i crimini l’esercito. Coloro che si schieravano contro gli islamisti venivano considerati “éradicateur” e pro-militari, come se non fosse possibile essere contro gli islamisti e contro i militari.
L’effetto 11 settembreNaturalmente a far cambiare opinione è stato soprattutto l’11 settembre 2001. Fino ad allora l’occidente non credeva o sottovalutava il ruolo e perfino l’esistenza del terrorismo islamico, ma dopo l’attacco alle torri gemelle la reazione è stata opposta. Anzi esasperata: tutti i musulmani sono diventati potenziali terroristi e l’islamofobia si è diffusa in tutto l’occidente.
Comunque sembra che la tragica storia algerina non abbia insegnato nulla o quasi. I paesi occidentali hanno reagito alla vittoria degli islamisti in Egitto e in Tunisia appoggiandoli, l’importante è la stabilità nell’area non importa se a garantirla sono dittature o teocrazie.
E ora i partiti religiosi vittoriosi nelle elezioni, già legati dall’appartenenza alla fratellanza musulmana, vogliono costituire una internazionale di partiti al potere. Il Movimento per la pace sociale (Mps, ex-Hamas) è uscito dal governo algerino in vista delle elezioni di primavera, evidentemente spera di rifarsi una verginità e recuperare voti sull’onda della vittoria di En-nahda in Tunisia e dei Fratelli musulmani in Egitto. Questo dopo aver approvato un emendamento alla costituzione per permettere a Bouteflika, salute permettendo, di poter concorrere alla presidenza per un terzo mandato. Mentre altri due protagonisti della storia algerina – Ben Bella e Chadli Benjedid – sarebbero ricoverati in Francia. A pagare le spese della restrizione di libertà imposta dal regime algerino è anche la stampa che invece nell’89, con la fine del partito unico, aveva vissuto una stagione di grande vivacità.
Fino a quando l’Algeria riuscirà a galleggiare sulle rivolte arabe e fino a quando gli altri paesi arabi riusciranno a garantirsi l’immunità dall’esperienza algerina?