Al porto di Zarzis, tra disperati in attesa

In 12 ore si attraversa il Mediterraneo

Al porto di Zarzis, tra disperati in attesa
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8 Marzo 2011 - 11.52


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Il mare sembra una tavola, l”ideale per prendere il largo. Sulla spiaggia di Ogla , che dal porto di Zarzis si estende per chilometri, un gruppo di giovani scruta l”orizzonte, meglio aspettare che quella nave militare (tunisina) si sposti per non incorrere in inutili rischi. La partenza dei barconi per l”Italia avviene alla luce del sole, di prima mattina come la sera, davanti alle villette, nemmeno in un luogo isolato. Basta versare la quota dovuta, intorno ai mille dollari, e lasciare un numero di cellulare. Quando tutto è pronto ti chiamano e via. Una barca a motore trasporta gli «harraga», un po” per volta, sulla barca (per arrivare a circa 200) e poi via. In dieci o dodici ore si dovrebbe arrivare a Lampedusa, se tutto va bene. Occorre approfittare di questo mare, nei giorni scorsi invece era molto mosso. Domenica, giornata splendida, sono partite diverse barche, una sola è tornata indietro per problemi tecnici. E già sono arrivate a Lampedusa. Sono soprattutto tunisini che lasciano il loro paese in un momento di difficoltà e incertezze dovute alla transizione del dopo Ben Ali.
Ma coloro che assistono o partecipano al business degli imbarchi ci dicono che cominciano ad arrivare qui anche algerini e alcuni profughi in fuga dalla Libia, che non sanno dove andare oppure mentre aspettano di essere rimpatriati affrontano l”avventura via mare. Coloro che arrivano dalla Libia in genere hanno soldi, se non sono stati derubati dai poliziotti libici, anche se non sono riusciti ad ottenere gli ultimi due salari a causa della situazione.
La tentazione è a portata di mano, sulla strada tra la frontiera e l”aeroporto di Djerba, e a poche centinaia di metri dal porto di Zarzis, da dove salpano le navi impegnate a riportare a casa gli egiziani.
Per far fronte all”emergenza tunisina occorrerebbero solo mezzi di trasporto per il rimpatrio dei profughi che vogliono, con rare eccezioni come i somali per evidenti motivi, tornare a casa. L”aeroporto è un bivacco, gente dappertutto, si dorme per terra in attesa dell”aereo.
Non sempre il coordinamento è perfetto tra l”arrivo all”aeroporto e la partenza, a volte passa anche una notte. Gli egiziani, che nel campo di Chocha avevano manifestato contro il loro governo che non li mandava a prendere, ora urlano: «Dio, Tunisia e Egitto» parafrasando uno slogan di Gheddafi. Quasi tutti sono partiti o stanno partendo, il problema maggiore è quello dei bengalesi, il Bangladesh è troppo lontano e nessun paese vuole mettere a disposizione aerei per un simile viaggio. E sono circa 9.000, non pochi, occorrono diversi voli. Ma non servono altri tipi di aiuti. Per la prima volta in una emergenza ci siamo trovati di fronte a mezzi sovradimensionati rispetto alla necessità. Appena entrano dalla frontiera i profughi ricevono un sacchetto con alimenti, acqua, etc. Acqua e dolcetti vengono dati persino a noi che documentiamo l”eccesso di zelo dei tunisini, che si vogliono riscattare dopo la caduta di Ben Ali. Ed è l”esercito tunisino a coordinare ogni aiuto. Domenica nel campo di Chocha cominciavano a costruire magazzini per stoccare le merci per possibili futuri nuovi arrivi in massa di profughi. Un”azione di emergenza preventiva. Ma gli operatori che abbiamo incontrato ci hanno pregato di lanciare lo stesso appello: qui servono solo mezzi per riportare a casa questi «profughi» in transito. Altre iniziative servirebbero, come spesso accade, solo a mettere la propria bandierina nel totale disinteresse delle necessità reali. Questo vale anche per il nostro governo che continua ad agitare lo spettro degli arrivi a Lampedusa, che comunque non potrà evitare. L”unica cosa utile che può fare è riportare a casa chi vuole tornarci. ‘

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