Il fallimento della «liberazione» delle donne in Afghanistan

Vent'anni dopo l'inizio delle guerra contro i taleban gli Usa se ne vanno dopo un accordo con gli studenti coranici. Le donne che hanno lottato per i loro diritti rischiando la vita non si arrendono

Il fallimento della «liberazione» delle donne in Afghanistan
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Giuliana Sgrena Modifica articolo

13 Maggio 2021 - 17.13


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Il conto alla rovescia è cominciato e si concluderà l’11 settembre, una data simbolicamente infelice per la conclusione dell’intervento americano in Afghanistan che proprio da quella data aveva preso il via. Sono passati vent’anni e con il ritiro delle truppe – non solo americane – entro l’11 settembre l’Afghanistan dovrebbe tornare «libero». La guerra più lunga sostenuta dagli Usa presenta un bilancio fallimentare. In Afghanistan molti temono questo ritiro, soprattutto le donne, e gli attentati degli ultimi giorni, che hanno preso di mira una scuola femminile (a Kabul, 60 vittime) e studenti che preparavano l’esame per accedere all’università nella provincia di Logar (30 vittime), giustificano le preoccupazioni. Poco importa la rivendicazione, la matrice è nell’estremismo islamico che non è stato eliminato, anzi è stato alimentato dalla presenza straniera, con la diffusione anche dell’isis.

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Il ritiro lascia terra bruciata e se tra gli obiettivi più ipocriti vi era «la liberazione delle donne dal burqa» il fallimento è evidente.

Si ritorna al 2001 quando questa guerra era iniziata per cacciare i taleban e si finisce con il ritorno dei taleban, sdoganati dagli stessi Usa che li volevano eliminare.

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Gli attentatori delle torri gemelle non provenivano dall’Afghanistan – ma dall’Arabia saudita – però l’Afghanistan aveva dato ospitalità a Osama bin Laden e, soprattutto, i media avevano amplificato le immagini delle donne afghane sottomesse a un regime oscurantista che nella lotta al sesso femminile aveva fatto la sua bandiera e la guerra contro gli studenti coranici otteneva facilmente il plauso. Le donne non avevano diritti: né di lavoro, né di scuola, né di voce, né di visibilità, costrette com’erano a vivere sotto il burqa. Erano vietati anche i tacchi a spillo che potevano fare rumore!

L’intervento occidentale aveva suscitato molte aspettative, ne avevamo discusso allora con molte donne, cercando di sfatare molte illusioni rispetto a un intervento militare, ma era comprensibile il loro desiderio di libertà a qualsiasi prezzo. E molte di loro si sarebbero poi impegnate nella lotta contro l’occupazione.  

Non sono stati certamente i militari a liberare le afghane, ma ricordo la prima manifestazione delle donne contro il burqa a Kabul, quando alzando quell’orribile velo scoprivano una pelle squamata perché privata per anni dei raggi del sole che avevano provocato anche carenze di vitamine. Nulla è stato regalato a queste donne che hanno saputo conquistarsi spazi a un caro prezzo in politica, nell’informazione, nelle arti e in molti altri lavori. Il burqa è stato sostituito con un foulard che lascia vedere ciocche di capelli, c’è anche chi non lo usa sempre. E c’è chi osa denunciare il marito violento e abbandona la famiglia per vivere in case protette, organizzate da Ong come Hawca. Nel mondo si sono fatte conoscere donne straordinarie come Malalai Joya, deputata espulsa dal parlamento al grido di «stupratela» perché aveva osato denunciare i signori della guerra presenti nella Loya Jirga. O Selay Ghaffar che, dopo aver diretto Hawca, è diventata portavoce del partito Solidarietà (Hambastagi). Due donne coraggiose costrette a vivere in clandestinità in quello che è considerato il paese meno sicuro per le donne. Perché molte hanno perso la vita: Farkhunda nel 2015 è stata uccisa a calci e bastonate per strada senza che gli agenti della polizia intervenissero. Più recentemente, il 3 marzo, Mursal Habibi, Saadia e Shahnaz avevano appena lasciato l’Enikass tv, dove lavoravano a Jalalabad, quando sono state uccise da uomini armati. Sono solo alcune delle vittime, molte anche fra i giornalisti.

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È possibile un peggioramento? È quanto emerge da un rapporto di Ashley Jackson dell’Overseas Development Institute del 2018 sulle condizioni imposte nelle zone controllate dai taleban: l’educazione cessa alla pubertà, le donne non possono andare al mercato e possono lavorare solo in zone protette (segregate). I taleban già controllano buona parte del paese ma se tornassero, e torneranno in base agli accordi con gli Usa, al governo il loro potere sarebbe maggiore. A confermare l’«inflessibilità» dei taleban anche nei negoziati e l’accettazione del rispetto dei diritti delle donne solo in base alla legge islamica è un rapporto del Consiglio di informazione nazionale degli Usa.

il manifesto 11 maggio 2021

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