«Un altro mondo è possibile ma solo se costruito dalle donne con le donne». Ozlem Tanrikulu, presidente dell’Ufficio informazione del Kurdistan a Roma e membro del Congresso Nazionale del Kurdistan, non ha dubbi. Solo le donne con la loro cultura, la loro esperienza politica, la loro pratica nella società possono smascherare gli stereotipi maschilisti che vorrebbero le donne chiuse in casa senza partecipare alla vita sociale e politica.
Ozlem chiude con estrema chiarezza e incisività una mattinata di testimonianze di donne «resistenti» giunte da mondi diversi ma che hanno in comune la visione del mondo e «l’atra via» da intraprendere.
All’incontro, organizzato ieri (15 ottobre) a Roma dalla rivista Confronti con il sostegno dei fondi ottenuti dalla Chiesa valdese con l’8 per mille, hanno partecipato Selay Ghaffar (Afghanistan) e Rada Zarkovic, presidente della cooperativa bosniaca «Insieme».
Sono volti noti al mondo italiano della solidarietà. Selay Ghaffar, già presidente di Hawca – Humanitarian Assistance for women and children of Afghanistan – molto impegnata in progetti di inserimento delle donne nel processo e nello sviluppo del paese, la ritroviamo nella nuova veste di portavoce di Hambastagi (Solidarietà), l’unico partito di opposizione in Afghanistan. Non è un compito facile per una donna nel momento in cui il paese sta vivendo una situazione di insicurezza crescente, soprattutto per le donne, che vengono lapidate, stuprate, acidificate, costrette a sposarsi bambine. Ma non solo: le vittime si contano a centinaia: assassinii, arresti, torture. Ricorda il crimine di Kunduz contro l’ospedale di Medicins sans Frontieres e la forte repressione nei loro confronti.
Soprattutto Selay denuncia l’occupazione occidentale, che dura ormai da 14 anni: «ci hanno detto che intervenivano per combattere il terrorismo, in Afghanistan invece è avvenuto il contrario, ora non abbiamo solo i taleban ma si sta espandendo anche l’Isis. Oersino la gente normale ora ha capito che gli Usa non volevano combattere il terrorismo ma solo difendere i loro interessi».
Perché hai deciso di passare dall’impegno sociale a quello politico? «Mi sono resa conto che occorre un cambiamento politico e per farlo occorre una risposta politica. Quando è nato Hambastagi nel 2004 eravamo in 700, nel 2014 gli iscritti erano 31.000, il 33 per cento sono donne, ma nella leadership la nostra presenza è del 50 per cento». Le donne con cui hai lavorato ti seguono nella tua attività politica? «Sì, lavoriamo con il popolo – giovani, studenti, donne – per renderlo cosciente che il nostro paese è occupato e che solo il popolo afghano può decidere del proprio futuro, nessuno ci porterà da fuori la libertà e l’indipendenza», risponde la portavoce di Solidarietà.
Libertà e indipendenza con un governo democratico e laico, e in più un tribunale che giudichi i responsabili dei crimini di guerra che ora sono al potere – con il governo di John Kerry, come viene definito in Afghanistan – o in parlamento.
Selay conclude sostenendo che loro si sono ispirati all’esempio di Kobane, solo la lotta di donne e uomini insieme può evitare la sconfitta.
E infatti, conferma Ozlem, «siamo rimasti sorpresi che Hambastagi fosse il primo partito ad aderire, lo scorso anno, all’appello per il 1 novembre di solidarietà con Kobane».
Tra Ozlem e Selay , Rada è orgogliosa di presentare la «via possibile» realizzata dalla cooperativa «Insieme» (molto conosciuta e anche sostenuta in Italia) per riportare la vita in quella terra di Srebrenica «desertificata» dalla orribile strage di 20 anni fa. «Gli occidentali hanno investito molti soldi per costruire tetti (Rada si riferisce al fatto che le case sotto sono rimaste vuote) ma non hanno fatto nulla per far tornare la gente, i soldi sono serviti solo agli stranieri per permettere loro di fare una vita che non avrebbero mai avuto nel loro paese. E ora se ne ricordano solo negli anniversari», denuncia Rada, come sempre senza peli sulla lingua.
Senza speranza e senza futuro non puoi vivere. «Noi stiamo lavorando per elaborare il lutto, per creare le condizioni affinché due vicini si possano parlare, piangere insieme…. » afferma Rada con la consapevolezza di una donna che ha vissuto la guerra schierandosi contro insieme alle donne in nero di Belgrado. «E ancora oggi a Sarajevo se ti chiedono che cosa sei e tu rispondi bosniaca ti considerano dell’altra etnia!», commenta con amarezza.
Ora è orgogliosa dei barattoli di marmellata fatta con i frutti della pace, coltivati biologicamente sulle rive della Drina, e «vestiti» a mano con le etichette, «costa di più ma da lavoro anche a chi non ha il terreno per coltivare». Le donne della cooperativa (ma il governo impone le tasse come se fosse un’impresa) hanno ritrovato il sorriso. Ma non tutto è facile, Rada e le altre devono far fronte alle leggi del mercato, senza avere la possibilità di fare pubblicità, veicolata solo dal passaparola. Però lo slogan è già collaudato: «compra il primo barattolo per solidarietà, il secondo solo perché è buono!».
Esperienze solo apparentemente lontane, le parole che si incrociano sono le stesse, sono quelle di donne che hanno vissuto o vivono in situazioni di violenza senza mai dimenticare l’appartenenza di genere.
«Tempo fa sono state diffuse molte immagini delle donne combattenti kurde, ma il movimento delle donne kurde è nato negli anni 70 e ha lottato contro il sistema feudale e patriarcale che fa la guerra. Le donne hanno sempre lottato contro quello che poteva distruggere la loro cultura matriarcale. La formazione del movimento kurdo è stato in gran parte gestito dalle donne in Rojava (dove i kurdi per evitare l’assimilazione non studiavano perché le scuole erano in arabo). Poi una grande spinta al cambiamento sociale, non solo in Rojava ma anche in Bakur (Turchia) è venuta dalle rivolte in Medioriente», sostiene l’attivista kurda.
La sua posizione è chiara: «non stiamo con Assad e nemmeno con l’opposizione siriana perché ha la stessa mentalità e nemmeno con il fascista Erdogan. Un altro mondo può essere fatto solo da donne», conclude Ozlem.
il manifesto, 16 ottobre 2015