Il terrorismo islamico esiste. L''Isil non è Robin Hood' | Giuliana Sgrena
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Il terrorismo islamico esiste. L''Isil non è Robin Hood'

Non si possono giustificare i terroristi che impongono la loro legge con il terrore, sgozzano e considerano le donne bottino di guerra.

Il terrorismo islamico esiste. L''Isil non è Robin Hood'
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21 Agosto 2014 - 09.24


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Basterebbe una sola immagine per rispondere all’intervento di Angelo d’Orsi apparso oggi (20 agosto) su il manifesto: quella del giornalista americano James Foley, poco prima di essere sgozzato, accanto al suo giustiziere che enuncia in perfetto inglese le motivazioni dell’esecuzione: i bombardamenti di Obama. D’Orsi immagini per un momento di trovarsi nella stessa situazione, che potrebbe capitare a qualsiasi italiano che si trovasse in Siria o in Iraq, soprattutto se oggi Renzi in visita a Baghdad e Erbil annuncerà l’aiuto militare. La «colpa» di Foley è quella di essere statunitense, è sufficiente per essere sgozzati? Per i terroristi sì. Il terrorismo islamico esiste, purtroppo. E le prime vittime sono stati proprio i seguaci di Franz Fanon in Algeria.

Forse non si riesce nemmeno a immaginare che per chi si trova in una situazione simile a quella di Foley a fare la differenza è proprio il trovarsi nelle mani di terroristi (come quelli dell’Isil, Stato islamico in Iraq e nel levante) o meno. Il problema è che oggi in Iraq non ci sono più combattenti per la liberazione del proprio paese dall’occupazione (gli Usa si sono o si erano ritirati) ora a combattere per il Califfato (potere) sono i jihadisti. Erano stati proprio i gruppi sunniti a combattere i qaedisti (ricordate al Sahwa, i consigli del risveglio?) dopo le nefandezze commesse a Falluja contro la popolazione. E non erano ancora arrivati agli orrori che stanno commettendo contro yazidi, cristiani (anche loro colonizzatori o colonizzati?) e altri, soprattutto donne, considerate bottino di guerra. E trovo aberrante citare la lotta partigiana, che nulla ha a che fare con quanto succede ora in Iraq.
L’Isil nasce proprio da quel gruppo di ispirazione qaedista rifugiatosi a Mosul e riorganizzatosi per combattere in Siria.

In Siria l’Isil si è arricchito di armi, combattenti e soldi arrivati via Turchia dai paesi del Golfo, dalla Libia e da tutto il fronte occidentale anti-Assad.

La miopia degli occidentali è sempre quella di sostenere chi combatte i «nostri» nemici: così è stato creato bin Laden contro i comunisti in Afghanistan, Israele ha sostenuto la nascita di Hamas contro l’Olp, si sono sostenute le varie milizie anti-Gheddafi che hanno trasformato la Libia in un campo di battaglia, etc.

Finché l’occidente si è accorto di non avere un interlocutore siriano presentabile come alternativa ad Assad perché l’opposizione in Siria oggi è rappresentata da jihadisti, in gran parte stranieri e non solo arabi, ma anche europei e statunitensi. Proprio dalle zone occupate in Siria l’Isil ha cominciato a creare il suo Califfato (sfruttando risorse e imponendo la zaqat del 10 per cento, elemosina che corrisponde a una tassa). E a dimostrazione che l’Isil non usa solo la scimitarra per sgozzare ma sa sfruttare anche il web, ha lanciato una campagna di propaganda che frutta molte donazioni da tutto il mondo, tanto da diventare autosufficiente prima ancora di accaparrarsi i 425 milioni di dollari custoditi nella banca centrale di Mosul.

Risorse anche energetiche, ma ora pare che la diga di Mosul sia stata riconquistata dai peshmerga kurdi, con le quali si possono ricattare sia il siriano Assad che il futuro capo di governo iracheno, soldi per pagare i jihadisti, molto di più di quanto non siano pagati i militari siriani e iracheni, sono le basi del Califfato del Levante che dovrebbe rovesciare i confini designati a tavolino dalle grandi potenze.

La mancata opposizione all’avanzata del califfo al Baghdadi nell’Iraq sunnita è dovuta alla politica discriminatoria del governo di al Maliki e a un esercito che escludeva i sunniti, ma non a un’adesione della popolazione all’ideologia dei terroristi. Cercare di analizzare queste realtà ci permette di capire la natura di questi movimenti che fanno del terrore la loro arma principale e che nulla hanno a che vedere con una lotta di liberazione. Di fatto quello che si sta delineando in Iraq con l’aiuto militare Usa e occidentale ai kurdi realizzerà proprio il disegno americano perseguito fin dalla prima guerra del Golfo (1991) con la creazione delle no fly zone, ovvero la spartizione etnico-confessionale dell’Iraq.

Riflettere poi sul nesso tra giustizia sociale e terrorismo come ci suggerisce d’Orsi è semplicemente paradossale: quale giustizia si può basare sul terrore? Sulla violazione dei più elementari diritti umani, a partire da quelli delle donne? Chi si illude che al Baghdadi si trasformi in un Robin Hood non ha idea di cosa sia uno stato islamico che, tra l’altro, in campo economico sostiene il liberismo puro: la proprietà è di dio e nessuno può metterne in discussione la distribuzione.

Che i jihadisti non siano gli unici terroristi in questo mondo è vero come è vero che non si è mai trovata una formulazione convincente sul termine terrorismo, ma non si può confondere un combattente armato delle guerre di liberazione con un terrorista. E cercare di “salvare” i terroristi usando il linguaggio nazista per definire i partigiani è un’aberrazione storica. I fatti devono essere contestualizzati, tanto è vero che oggi nessuna lotta armata ha più possibilità di successo contro gli armamenti moderni, nemmeno i vietnamiti ce la farebbero probabilmente. Sono anche convinta che l’unica arma in grado di destabilizzare le potenze superarmate sia il terrorismo, ma le vittime del terrorismo sono come quelle delle guerre i civili e la civiltà. Per questo penso che la non violenza, l’interposizione di forze non armate, sia l’unica soluzione, anche per non disumanizzare donne e uomini vittime delle bombe americane ma anche dei tagliagole jihadisti.

Inviare armi ai peshmerga kurdi servirà solo a rifornire il già fiorente supermercato, che va dalla Libia all’Iraq, passando per la Siria dove si compra per poco qualsiasi armamento, salvo poi magari fra qualche anno porsi il problema della presenza di uno stato kurdo superarmato nella regione.

il manifesto 21 agosto 2014

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