Sarà al Qaeda a realizzare quello che era l’obiettivo degli americani in Iraq? Se continua l’avanzata nelle zone sunnite dell’Esercito islamico dell’Iraq e del Levante la spartizione del paese sarà un dato di fatto.
L’organizzazione legata ad al Qaeda ha realizzato negli ultimi giorni un’offensiva fulminea che l’ha portata a conquistare Mosul, la seconda città irachena, Baiji, sede della raffineria più importante, Tikrit, città natale di Saddam Hussein, fino ad arrivare ad occupare alcuni quartieri di Kirkuk.
L’esercito di Baghdad non ha saputo opporre resistenza, anzi ha abbandonato il campo pur essendo più numeroso dei combattenti jihadisti. Tanto che i capi militari potrebbero essere portati davanti alla corte marziale per aver nascosto la gravità della situazione.
Circa 500.000 persone hanno abbandonato Mosul: un altro esodo di dimensioni bibliche. Non è il primo e non sarà l’ultimo in Iraq.
Com’è potuta avvenire questa disfatta del governo sciita di al Maliki, il cui esercito non è stato in grado di riprendere il controllo di Falluja, da gennaio in mano ad al Qaeda, e ora di opporsi all’avanzata in gran parte delle zone sunnite o sunno-kurde? In realtà il governo al Maliki con il suo esercito sciita non ha mai avuto il controllo di quelle zone, in città miste e rivendicate dai kurdi, come Mosul e Kirkuk. L’addestramento americano in tutta quest’area non ha mai avuto successo, anzi ora gli armamenti forniti dagli Usa sono finiti nelle mani dei qaedisti.
A Mosul vivono circa 7.000 ex ufficiali di Saddam e oltre 100.000 ex soldati, rimossi dal loro servizio dopo il processo di de-Baathificazione. La situazione era già peggiorata nel 2007 con l’arrivo dei qaedisti espulsi da Baghdad e dalla provincia di Anbar da al Sahwa (il movimento del risveglio), appoggiato dagli Usa. Da allora Mosul e la provincia di Ninive sono diventati la base dell’Isil che aveva lanciato una campagna contro le minoranze, soprattutto i cristiani e gli yazidi.
Gli imam che non seguivano la linea indicata venivano giustiziati, i negozi di alcolici dati alle fiamme, minacciate le donne che non vestivano «appropriatamente», gli artisti e gli universitari. Molte le teste rotolate, molte le vittime civili delle grandi prove per la costituzione del nuovo Califfato. Le mire dell’Isil si sono estese, in seguito alla guerra in Siria, anche al Libano (infatti il nome è cambiato da Isi in Isil).
I due anni – dal 2011 al 2013 – in cui i qaedisti hanno combattuto soprattutto in Siria portandosi dietro anche molti jihadisti iracheni, hanno dato un po’ di respiro alla città. Ma dopo lo scontro con l’altro gruppo qaedista, il fronte al Nusra (rappresentante ufficiale di al Qaeda in Siria) l’Isil, seguendo la propria strategia di non combattere dove non può reggere il confronto, è ripiegato sull’Iraq, pur mantenendo le proprie postazioni nel nord della Siria. Ma nel frattempo la guerra contro Assad aveva procurato all’Isil popolarità, soldi, armi e uomini, ai quali si sono aggiunti i prigionieri liberati.
L’ effetto si è visto negli ultimi giorni. Chi potrà fermare i qaedisti? Solo i peshmerga kurdi potrebbero farlo, del resto sono stati gli unici a garantire negli ultimi anni quel poco di sicurezza di cui hanno goduto queste zone. Un aiuto al governo centrale che il governo kurdo farà pesare visto il contrasto con Baghdad sulla rendita petrolifera.
il manifesto 12 giugno 2014