Un abbraccio lungo, sofferto. Un contatto che trasmette sofferenze, destini condivisi, traumi difficili da superare, paure, incertezze, ma anche un impegno per il futuro. L”incontro con Ingrid Betancourt, dopo una conferenza stampa che mi aveva riportato indietro di tre anni e mezzo con tutta l”angoscia di allora, è stato pieno di emozione, improvvisamente tutta la tensione è come se si fosse sciolta. Il suo viso tirato e pallido, molto diverso da quello che abbiamo visto sulle copertine delle riviste, un corpo esile, uno sguardo timido, la voce a momenti incerti, soprattutto quando racconta dei momenti più intimi. Tutto intorno la fronda dei giornalisti che, forse persino loro malgrado, sembrano volerla coglierla in fallo. E” la storia che si ripete, soprattutto quando sotto i riflettori vi è una donna. Lo abbiamo già vissuto. Ma Ingrid riporta tutto al percorso di fede – è appena tornata dall”incontro con il papa – fatto durante la sua prigionia. Una esperienza che io non ho condiviso, ma ognuno di noi quando si trova in situazioni simili cerca la propria strada per resistere. Sette anni nella selva, fuori dal mondo, lontano dalla politica ma soprattutto dagli affetti. E” una esperienza che ti cambia profondamente: «le cose che erano importanti non lo sono più e viceversa». E comunque quello che ne risulta è una Ingrid Betancourt non tanto interessata dall”arena politica ma a dare voce a chi non ha voce e innanzitutto ai sequestrati, ai suoi compagni di prigionia ancora nelle mani delle Farc e a quelli sparsi nel mondo. Una campagna per la liberazione di tutti gli ostaggi è senza dubbio un impegno da condividere. L”uso del sequestro di civili, arma diffusa nei nostri tempi, è un crimine da condannare. Chi è impegnato per il dialogo, contro le guerre, per la giustizia sociale non può diventare un”arma. Chi sostiene di difendere una causa giusta non può usare un”arma simile. Si aliena comunque il sostegno popolare. Il mondo che si è levato per chiedere la liberazione di ostaggi noti non può dimenticare quelli meno noti siano essi colombiani, somali o iracheni. Ma tocca innanzitutto a noi mobilitarci, a chi ha vissuto la terribile esperienza: la vicinanza della morte, l”incertezza del futuro, «un saluto, un sorriso negato», come ha ricordato Ingrid. «Quando ho sentito della tua liberazione è come se avessero liberato una parte di me», mi ha detto Ingrid. E” esattamente la sensazione che ho provato quando qualcuno è stato liberato. Ma tra di noi più delle parole sono stati i contatti, gli sguardi, gli impegni, quasi come se la sorte di sequestrata fosse diventato un percorso condiviso che ci ha unito. Come del resto mi aveva unito a altre/i sequestrati. Dobbiamo dimenticare ma tutto ci impone di ricordare. Soprattutto ricordare per non dimenticare chi vive ancora in cattività. Coinvolgendo gli altri non solo per la liberazione ma per una politica diversa di dialogo che si sostituisca ai conflitti, alle guerre. Lavorare perché non ci siano più guerre che impieghino come arma gli ostaggi. Una strada da percorrere è il dialogo, ha ricordato Ingrid. ‘
Con Ingrid libera liberiamo tutti gli ostaggi
Ingrid Betancourt a Roma
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2 Settembre 2008 - 11.52
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