Olimpiadi rosa o giochi del diavolo? Per lo sceicco saudita Muhammad al Munajid non fa differenza: i bikini olimpionici sono il miglior regalo a Satana. Un peccato che i sauditi non commettono perché vietano alle donne la pratica dello sport «per ragioni culturali e religiose». Contro questa medioevale visione del mondo e la discriminazione delle donne nello sport avevano protestato alcune saudite diffondendo un messaggio su Youtube con le immagini di donne coperte da un velo integrale nero incatenate su un campo di calcio.Se per le donne saudite (e quelle del Brunei) la partecipazione alle Olimpiadi è un sogno impossibile, è difficilmente realizzabile anche per quelle del Qatar e del Kuwait. Per altre musulmane le porte di Pechino si sono aperte. Ma con scarse possibilità di successo. Alcune di queste, come Ruqaya al Ghasara del Bahrain e l”iraniana Homa Husseini, hanno avuto l”onore di sfilare portando la bandiera del loro paese. Alla sfilata l”hijab non era un grande ostacolo, ma vedere Homa vogare sulla sua canoa avvolta in veli che non le facilitavano i movimenti e la facevano grondare di sudore era ben altra cosa. E anche per Ruqaya il velo, pantaloni e maniche lunghe non facilitavano certo lo sprint nei 100 metri. Così come per l”afghana Robina Muqimyar, piazzatasi ottantacinquesima, all”ultimo posto.Osservare queste donne competere senza nessuna chance di essere competitive con concorrenti che hanno costumi che sembrano dipinti sul corpo è una grande umiliazione. Al di là della propaganda dei siti islamisti.Per molti paesi la presenza di donne non era assolutamente scontata: nel 1992 a Barcellona 35 delegazioni – la metà musulmane – erano rigorosamente maschili. A Pechino invece sono solo quattro. Non a caso, dopo Barcellona, due avvocate francesi hanno fondato il gruppo «Atlanta plus» per promuovere la partecipazione delle donne ai giochi olimpici. Il lavoro di questo gruppo non è ancora terminato, le barriere di genere da abbattere sono ancora evidenti.In certi casi si sono rafforzate negli ultimi anni per l”imporsi di movimenti islamisti. Nel 1984 a Los Angeles la marocchina Nawal el Moutawakel era stata la prima donna araba a vincere una medaglia d”oro, nei 400 metri. Nel 1992 era stata l”algerina Hassiba Boulmerka a vincere l”oro nei 1.500 metri. Ma tornata a casa gli islamisti cominciarono a minacciarla perché correva con i calzoncini corti. Hassiba non si era lasciata intimidire anche se spesso per potersi allenare andava a Cuba o veniva in Italia.La stessa sorte tocca oggi alla irachena Dana Abdulrazak, che prima si chiamava Hussein ma forse questo nome è diventato troppo ingombrante. La ventiduenne Dana è stata minacciata perché correva con i pantaloncini corti, è sfuggita a un cecchino, a volte ha dovuto pagare per superare gli sbarramenti di sunniti e sciiti. E poi a Baghdad ci sono le bombe, le strade disastrate, e gli atleti iracheni hanno rischiato di rimanere a casa, esclusi dal Comitato olimpico, è quindi comprensibile la gioia di Dana anche se è stata eliminata nella gara dei 100 metri. Almeno ha partecipato (con pantaloni al ginocchio e maglietta con maniche corte), «se avessi dovuto aspettare il 2012, dice, non so se sarei sopravvissuta». ‘
Velociste con il velo
Donne musulmane alle Olimpiadi
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17 Agosto 2008 - 11.52
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