Non è facile incontrarli. Anche se hanno voglia di parlare: non si fidano di nessuno. Sono gli interpreti che hanno lavorato per le truppe americane in Iraq e poi, minacciati dai gruppi iracheni che combattono l”occupazione, sono fuggiti in Siria. Nemmeno qui si sentono sicuri, non escono quasi mai di casa. L”appuntamento è a casa di uno di loro, gli altri ci raggiungeranno, nel quartiere di Sayyida Zeinab, a Damasco. Il «contatto» non mi da l”indirizzo, viene a prendermi con un taxi, che abbandoniamo lontano dal punto di ritrovo, il resto si fa a piedi. «Non voglio che sappiano dove abito», mi dice. E mi meraviglio che abbiano accettato di incontrarmi, forse è perché hanno bisogno di far conoscere la loro situazione.L”avvio non è semplice. Mi scontro con la loro diffidenza: che ne farà di queste interviste? Non strumentalizzerà la nostra posizione? Rispondo – mentre il mio pensiero torna a un incontro con altri profughi dall”esito drammatico – che mi sembra sufficientemente significativo raccontare le loro storie, le conclusioni le trarranno i lettori. La loro posizione è indubbiamente scomoda: trattati da traditori dagli iracheni perché hanno lavorato per gli occupanti, ora sono bistrattati anche dai loro datori di lavoro perché hanno abbandonato il campo prima della «vittoria», e quindi sono «traditori» anche per gli americani.Il cartello davanti casaQuando arriviamo nel luogo dell”appuntamento alcuni sono già arrivati. Mohammed, sciita, 33 anni, insegnante di inglese, subito dopo l”arrivo degli americani, il 20 giugno 2003, era stato assunto nella base aerea di Tallil a Nassiriya. Si occupava, dice, di affari civili: scuole, settore medico. Ma era finito subito sulla lista nera dell”esercito di al Mahdi, le milizie di Muqtada al Sadr che controllavano la zona. «Allora avevo deciso di allontanarmi per un po”, ma poi avevo bisogno di soldi e sono tornato. Il comando mi ha impegnato sul terreno di battaglia, dove si arrestavano i “sospetti”. È allora che hanno cercato di uccidermi facendo esplodere due ordigni, per questo ho lasciato definitivamente gli americani. Sono tornato all”università, ma un giorno, durante un esame, un docente mi ha indicato come “traditore” a tutti gli studenti. Il 23 luglio 2007 hanno attaccato davanti casa mia un cartello che mi accusava di essere un agente degli ebrei e degli americani: era la mia condanna a morte. Firmata dall”esercito di al Mahdi. Dovevo fuggire: ho pagato 500 dollari per avere un visto e ho portato la mia famiglia in un villaggio perché non avevo 2.500 dollari per comprare il visto per tutti».La speranza di Mohammed, come degli altri, è quella di riuscire ad andare negli Stati uniti e tutti loro chiedono, anzi pretendono, che l”Alto commissariato dell”Onu per i rifugiati (Unhcr) dia loro la priorità per il resettlement all”estero. Ma perché dovrebbero essere favoriti? Sono molti i profughi a rischio, tra i quali soprattutto le donne.«Non lo rifarei»Perché non vi rivolgete direttamente all”ambasciata americana?, suggerisco. «L”abbiamo fatto, ma per avere un visto per gli Usa occorrono le credenziali di un generale e noi abbiamo solo quelle di ufficiali di grado inferiore, io ho la raccomandazione del colonnello della base. Dicono che per avere la garanzia di un visto per gli Usa non avremmo dovuto lasciare il lavoro», risponde Mohammed.Quanto guadagnava lavorando con gli americani? «Sono arrivato a un massimo di 950 dollari». Non molto, ma certamente per l”Iraq è un salario assolutamente ragguardevole. Lo rifarebbe? «Se potessi tornare indietro non lo rifarei», sostiene Mohammed.Chi ha pagato più cara la sua scelta è Alla. Anche lui proviene dal sud Iraq dove ha lavorato, dall”agosto 2003 a maggio 2006, nella base di Tallil, vicino a Nassiriya. Faceva l”interprete per l”addestramento prima dei piloti e poi della guardia nazionale irachena. Ha lasciato l”esercito americano per passare alla Aegis, una società di security di Londra che fornisce contractor all”Onu, alle forze multinazionali e a chiunque voglia essere protetto in Africa, Golfo, Iraq compreso, Afghanistan, fino al Nepal.Alla va con i contractorsLavorare come contractor è più redditizio ma non meno pericoloso che lavorare con le truppe americane. Dopo due settimane di lavoro all”Aegis, il 17 giugno 2006, mentre stava scortando degli americani, Alla è rimasto gravemente ferito dall”esplosione di un ordigno che ha colpito il veicolo su cui viaggiavano. Si è salvato per miracolo ma è rimasto paralizzato. L”Aegis ha pagato le spese per farlo operare due volte in Giordania, ma poi ha troncato ogni relazione. Alla, racconta, ha cercato di mettersi in contatto con Tim Spicer, manager della società fondata nel 1994 dopo aver lasciato l”esercito britannico, ma non ha ricevuto nessuna risposta. Alla non dispone di nessun contratto di assunzione che possa servire a chiedere un risarcimento, anche quando è stato portato in Giordania l”Aegis non è mai apparsa, era un medico iracheno a farlo ricoverare e a pagare la clinica. L”ex contractor quasi li giustifica: hanno già speso 100.000 dollari per le cure. Ma lui, a 33 anni, non potrà più lavorare e ha due figli piccoli da mantenere. E inutilmente attende un visto per Usa o Gran Bretagna.Adel invece ha atteso prima di andare a lavorare con gli americani, dice di essersi deciso perché era rimasto solo, la moglie era morta, e aveva bisogno di soldi per curare uno dei suoi figli che avrebbe bisogno di un intervento al cervello, che ancora attende. Dal 3 maggio 2005 fino all”aprile del 2007 ha lavorato come interprete nel centro di detenzione di Camp Bucca (dove c”erano 18-20.000 detenuti), a Bassora al confine con il Kuwait. Prima è stato rapito e ha dovuto pagare 15.000 dollari di riscatto, poi è sfuggito a due tentativi di assassinio, finché non è fuggito con la nuova moglie e i sette figli. Tutti i suoi problemi restano irrisolti, anzi, nel frattempo sono peggiorati perché anche i soldi guadagnati sono finiti.La disperazione di SusanSusan, poco più che trentenne, divorziata con un bambino, è la più diffidente, è molto aggressiva nei miei confronti, ma alla fine decide di raccontare la sua storia. Prima della guerra aveva lavorato per cinque anni all”ambasciata indiana di Baghdad. Ma con l”inizio dei bombardamenti tutte le rappresentanze diplomatiche hanno chiuso i battenti così dopo l”occupazione ha cominciato a lavorare per la Kbr, una sussidiaria della Hulliburton, la società già guidata da Dick Cheney, che ha ottenuto gran parte degli appalti in Iraq. «Ma dopo tre mesi hanno bombardato la sede e ho perso il lavoro. Allora ho trovato un impiego alla Motorola», altra compagnia americana, telefonica, che produce anche strumenti di comunicazione molto sofisticati e usati dall”esercito. «Per far fronte alle minacce, i capi del mio ufficio hanno accettato la protezione delle milizie sciite. Ero incaricata di selezionare il personale, non facevo differenze tra etnie e confessioni, ma io sono sunnita e hanno cominciato a perseguitarmi. Ho cambiato tre volte casa e quartiere, ma non è servito a nulla. Hanno ucciso l”autista e dopo che hanno assassinato anche mio fratello ho lasciato la Motorola. Pensavo che passare all”Orascom (la compagnia telefonica egiziana che a Baghdad gestisce l”Iraqna, la rete cellulare del centro Iraq, ndr) avrebbe cambiato la situazione. Invece questo non è servito a molto, perché siccome facevo l”interprete d”inglese mi consideravano sempre invischiata con gli Usa. Le minacce non sono cessate anzi hanno tentato di rapirmi. Durante uno scontro tra sciiti e sunniti ho cambiato nuovamente casa, ma appena entrata, mentre stavo ancora aprendo i bagagli, hanno cominciato a sparare contro le finestre, dicendo che se non ce ne fossimo andate (io e mia figlia) ci avrebbero ucciso. Quando ho capito che gli “informatori” erano all”interno dell”azienda per cui lavoravo ho capito che non c”era nulla da fare. Allora sono venuta in Siria, era il 27 novembre del 2006», conclude Susan.Gli «interpreti» non si sentono affatto al sicuro in Siria e hanno esaurito anche i soldi accumulati lavorando con gli Usa, le speranze di partire sono scarse e su di loro pesa la doppia condanna: «traditori» degli iracheni e degli americani. ‘
I traduttori sono "traditori"
Profughi in Siria: sugli interpreti una doppia condanna
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6 Gennaio 2008 - 11.52
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