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Libano, cosa fanno i nostri soldati?

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21 Dicembre 2006 - 11.52


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Dalla collina dove sorge il villaggio di Chaba, arroccato intorno al suo castello medioevale, si può ammirare in lontananza la baia di Tiro. Immediatamente sotto il villaggio, in contrasto con il paesaggio mediterraneo, sta crescendo a vista d”occhio la più grande delle cinque basi italiane costruite nel sud del Libano, sul lato opposto della strada si trova il contingente portoghese. I soldati stanno velocemente attrezzando l”enorme spiazzo, affittato dall”Unifil con la promessa di salvare gli ulivi secolari disseminati nel campo e finora schivati dalle ruspe e dai camion che li hanno coperti di polvere. «Quando siamo arrivati il campo era una distesa di fango», dice il colonnello Giordano Ciccarelli, comandante della base, «ma poi il bel tempo ha favorito il recupero del terreno e la costruzione della base»: tende gonfiabili con riscaldamento e aria condizionata, cucine, luoghi di riunione, un ufficio postale con un timbro fatto appositamente dalle poste con la scritta «operazione Leonte», una sala internet. Il bar con i biliardi e alcuni negozietti di prodotti elettronici e generi di prima necessità sono invece gestiti dai libanesi che, si sa, hanno la vocazione per il commercio.La presenza di libanesi dentro la base italiana, in questa come in altre, comando di Tibnin compreso, dà l”impressione di un rapporto di fiducia tra i militari e la popolazione. E per confermarlo il colonnello mostra i tre alberi di Natale regalati dal muktar (sindaco) di Chaba. «Prima ci aveva mandato un cipresso, poi di fronte alla nostra perplessità ha inviato uno suo uomo a Beirut a comprare due alberi simili ai nostri abeti», dice il colonnello, mentre un soldato sfida il vento per addobbare gli alberi. Gli alberi di natale non mancano mai nei campi militari, anche nelle situazioni più drammatiche. Per fortuna in Libano la situazione, pur rischiosa e tale da richiedere estrema attenzione, permette anche di pensare alle feste.Il contingente comandato dal generale di cavalleria Paolo Gerometta – con esperienza in Kosovo – controlla il settore ovest della missione Unifil, a sud del fiume Litani, ormai ridotto a poco più di un rigagnolo. Il sud del Libano è sicuramente la parte più penalizzata del paese e non solo per l”occupazione israeliana (la «striscia di sicurezza» fino al 2000) e la guerra, le cui recenti distruzioni sono ancora visibili. Le strade sono dissestate e l”arrivo dei mezzi militari non ha certo migliorato la situazione. La popolazione si lamenta di essere stata sempre abbandonata dal governo centrale: un isolamento cresciuto dopo l”ultima guerra che, con il bombardamento dei ponti, ha allontanato la capitale. L”autostrada è stata chiusa e sulla strada nazionale i tempi di percorso si sono moltiplicati a causa delle distruzioni e del traffico.Inoltre la guerra ha impedito i raccolti dell”estate. Ora i banani e gli alberi di agrumi sono gravidi di frutti, ma il terreno è ancora disseminato di ordigni bellici e soprattutto di cluster bomb che rendono il raccolto estremamente rischioso. La bonifica del terreno è quindi una delle priorità sia dei contingenti Unifil che dell”Onu, attraverso l”Unmas, per permettere la ripresa dell”economia locale. Lo conferma il generale Gerometta che parla del ritrovamento finora di oltre 1.000 cluster bomb e 300 bombe. Alcuni medici libanesi parlano anche dell”uso da parte di Israele di altri tipi di bombe, quelle elettromagnetiche. Ma al generale italiano «non risulta». Nel campo di Chama si sta curando un cane ferito, uno dei sei che servono a individuare gli ordigni; altre segnalazioni invece arrivano direttamente dalla gente.I pattugliamenti (da 50 a 80 al giorno) e gli incontri con i muktar dei villaggi che si trovano nella zona controllata dagli italiani permettono di individuare le necessità della popolazione e soprattutto di creare un clima di fiducia, afferma Gerometta che da gennaio assumerà il comando di tutta l”Unifil. Il clima di reciproca comprensione è però turbato da alcune voci, di cui non abbiamo avuto conferma, secondo cui due soldati italiani avrebbero rubato in un negozio libanese creando un increscioso precedente.L”avvio di Unifil 2, un impegno militare molto più consistente (non solo per i numeri) di Unifil 1, ha suscitato speranze nella popolazione stremata dalla guerra scatenata l”estate scorsa dagli israeliani. Speranze di pace, di aiuti e, perché no, di business. C”è chi ancora ricorda la partenza del contingente italiano nel 1984, con il dono dell”ospedale da campo ai palestinesi. Ma questo non è l”unico motivo di aspettativa. Gli italiani non sono come i francesi – qualcuno ha già imparato un po” di italiano e li definisce «bastardi», forse soprattutto per il vecchio rancore coloniale e i nuovi tentativi di interferenze – che attraversano il villaggio a tutta velocità rischiando di travolgere i bambini, sostiene Mohamed Fayad. «Gli italiani invece rispettano noi e la nostra cultura», dice Mohamed, che non è del tutto disinteressato anche se finora non ha realizzato le proprie aspettative. Mohammed e la sorella Amira hanno aperto un negozio di alimentari a pochi metri dalla base italiana proprio il giorno in cui sono arrivati i primi militari. Lo stesso ha fatto il meccanico dell”officina accanto.Amira racconta che la loro casa è stata distrutta dai bombardamenti, hanno perso tutto e con i soldi ricevuti da Hezbollah, 10.000 dollari (per i mobili) hanno messo su il negozio. Per ora vivono presso i vicini in attesa del risarcimento del governo per ricostruire la casa. Dovranno aspettare parecchio anche se, dicono, il governo ha già a disposizione i fondi necessari. Ma Amira e Muhammed sono fiduciosi. I soldati italiani non si sono visti nel negozio solo «perché non escono ancora dalla base», si consola Mohammed. Facciamo notare che lì vicino ci sono anche i portoghesi, ma lui risponde senza esitare: «I portoghesi sono poveri».Eppure «i portoghesi hanno già finanziato un piccolo progetto per restaurare la moschea del villaggio», sostiene Abbas Haider, un uomo di 66 anni che vive in una grande casa nel centro del villaggio. Durante i bombardamenti gli Haider si erano trasferiti a Tiro dove, in una sartoria, lavorano le quattro figlie. Solo i genitori tornavano di tanto in tanto per vedere se la casa era ancora in piedi. Sono i giorni delle grandi manifestazioni contro il governo a Beirut e la televisione di Haidar è sintonizzata su al Manar, la tv di Hezbollah che trasmette tutto in diretta. La famiglia Haidar ascolta con religiosa attenzione tutti gli interventi dei leader politici e si dice fiduciosa perché in piazza ci sono sciiti, sunniti, cristiani e drusi. Quando facciamo notare che a Beirut ci sono molti timori che la situazione possa precipitare e che ad avere paura sono soprattutto i sunniti, Abbas risponde che il leader di Hezbollah Nasrallah ha detto: risponderemo con i fiori e non con le cartucce. Lui ci crede ciecamente. E poi, sostiene, il nostro leader è molto intelligente e saprà cosa fare.Non tutti però si fidano dell”Unifil: «L”impegno è quello di mantenere la pace e di realizzare la risoluzione 1701 dell”Onu, ma i contingenti non devono cambiare politica altrimenti tutti ci andranno di mezzo, anche gli italiani», sostiene Ahmad al Dor, un ingegnere di passaggio nel negozio di Muhammed. Cosa potrebbe segnare un cambiamento di politica? «Entrare in conflitto con la popolazione». Disarmare Hezbollah, per esempio? Ahmad annuisce e aggiunge che l”Unifil deve mettere fine ai sorvoli sulle zone libanesi degli aerei israeliani, che continuano. «Comunque, aggiunge, non abbiamo niente contro gli italiani. Del resto quando una cosa è bella si dice che è italiana, quindi…». «Noi giudichiamo dai fatti, non ci curiamo tanto delle dichiarazioni dei politici», aggiunge un assistente dell”ingegnere. Diversi libanesi da queste parti non apprezzano le dichiarazioni dei nostri politici (soprattutto Prodi) di totale sostegno al governo di Fouad Siniora. «Devono essere imparziali, non devono schierarsi», sostengono.Le basi italiane sono installate in una zona abitata prevalentemente da sciiti, per lo più seguaci di Hezbollah, e simili dichiarazioni potrebbero peggiorare i giudizi sul nostro contingente – anche se nessuno ignora il cambiamento della politica italiana con il nuovo governo e il ruolo avuto dall”Italia con il ministro degli esteri D”Alema. Tuttavia, ad aumentare i timori per le sorti dei contingenti sono anche le voci sempre più insistenti dell”arrivo in Libano di militanti arabi di al Qaeda, denunciato anche dai leader dell”Olp.Al di là dell”altura, proprio di fronte alla collina sulla cui sommità è installata la base israeliana di Birket Risha, sorgono anche tre piccoli villaggi sunniti, i più penalizzati dagli attacchi di Israele. Il primo che incontriamo è quello di Yarine: durante gli ultimi bombardamenti gli abitanti sono stati evacuati e portati nella base Unifil di Naqura, pochi chilometri a sud di Tiro. Zaya, una donna novantenne, circondata da figlie e nipoti, gestisce un negozietto sull”unica strada che attraversa il villaggio, frequentato anche dai militari, soprattutto libanesi. Ce ne sono due quando arriviamo noi, uno sciita e l”altro druso, e non sembrano badare alle differenze confessionali: sarà perché sono più interessati alle belle nipoti di Zaya, scherziamo. Il militare sciita conferma le nostre insinuazioni con una sonora risata. Le ragazze si scherniscono. Ma le loro madri no: «Basta che trovino marito, anche un soldato, libanese o magari italiano», afferma Emal mentre passa una pattuglia italiana. «Con l”Unifil ci sentiamo più sicuri ma a noi che siamo i più sotto tiro ci hanno mandato il contingente più misero, quello dei ghanesi».Anche se qui la situazione sembra calma, le immagini che arrivano da Beirut non sono rassicuranti. Nella capitale i sunniti sono preoccupati, facciamo notare. «Noi qui viviamo insieme senza distinzione di religione: mia sorella ha sposato uno sciita, l”altra un maronita. Sono i politici a creare le differenze», continua Emal. Avete mai pensato di andarvene? Zaya, che ricorda ancora i tempi in cui Israele non esisteva e andava a trovare i parenti a Haifa in tre ore, sostiene che altrove non avrebbero di che vivere: qui i suoi familiari coltivano tabacco e ulivi, mentre lei manda avanti il piccolo spaccio.Risalendo la collina il villaggio di Aalma ech Chaab sembra abbandonato, molte delle abitazioni sono seconde case. Le due chiese indicano la composizione degli abitanti, divisi tra cristiani ortodossi e maroniti. Ma ci sono anche protestanti, quattro-cinque famiglie in tutto, che si fanno prestare una delle due chiese per celebrare la messa. Ed è proprio una famiglia di protestanti ad accoglierci. Finalmente una televisione che non è sintonizzata sulle manifestazioni ma su un programma musicale. «La gente è stufa di conflitti, ma con l”alleanza tra musulmani e cristiani ci sentiamo più sicuri», sostiene Emad, un giovane che lavora a Beirut e che è venuto a trovare i genitori insieme alla moglie e alla figlia di un anno. All”inizio fingono di non avere nessuna particolare simpatia per i due schieramenti che si confrontano in Libano e che vedono i cristiani divisi tra i sostenitori del governo e dell”opposizione, ma poi si lasciano andare: Geagea è un criminale, dicono, mentre i loro apprezzamenti vanno al generale Aoun che si è alleato con gli sciiti.E che ne pensano del contingente italiano e dell”Unifil? Finora non hanno avuto contatti, hanno solo visto le pattuglie passare, ma sperano che oltre alla pace portino anche lavoro per la popolazione locale. Si fa buio quando lasciamo la casa degli Zaohrab. Le luci accese sull”albero di natale in giardino sono uno dei pochi segni di vita del villaggio. ‘

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