Una vita in Iraq. Vissuta pericolosamente | Giuliana Sgrena
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Una vita in Iraq. Vissuta pericolosamente

Salman, 71 anni, baathista, vittima di Saddam. Ed ex segretario del sindacato. Nazionalista convinto, difende la resistenza contro l''occupazione americana e condanna i sequestri. Racconta la galera, le torture e il lavoro sindacale. Ora è corteggia

Una vita in Iraq. Vissuta pericolosamente
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6 Ottobre 2004 - 11.52


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Sta sempre appiccicato alla televisione, passando dal telegiornale di al Jazeera a quello di al Arabiya. In Iraq nessuno vede la televisione locale, tantomeno quello della propaganda americana, al Hurra (Libertà), per sapere le ultime notizie. Che qui non sono mai positive. I nipotini protestano perché non possono vedere i cartoni animati. Salman Dawood el Bayati, 71 anni, sunnita con moglie sciita e due figli, uno emigrato in Malaysia mentre l”altro, che vive con lui, ha sposato una kurda, con occhi blu bellissimi come quelli dei suoi due bambini. Una famiglia simbolo dell”unità dell”Iraq. Salman, militante del partito Baath delle origini e molto impegnato finché non è stato fatto fuori da Saddam con l”accusa di cospirazione, ora è molto corteggiato dai politici che, soprattutto in vista delle annunciate elezioni, cercano di trovare qualche uomo presentabile e onesto da candidare. Ma lui non ne vuole sapere. In particolare se il partito è quello del premier Allawi che ha mandato il capo del suo partito, Rossim al Awadi, a cercarlo, voleva che assumesse la direzione del nuovo sindacato.Perché ha rifiutato?Non penso si possa lavorare in questa situazione. Il governo iracheno non può far nulla, è controllato dagli Stati uniti, sono solo marionette nelle mani degli americani.Ma se ci saranno le elezioni…Vogliono fare credere che ci saranno delle elezioni ma non si può votare in tutto l”Iraq e non saranno elezioni oneste. I partecipanti sono tutti personaggi portati qui dagli americani.Per questo si rafforza la resistenza, non pensa?Ci sono tre tipi di resistenza: una è di reazione a quello che fanno gli americani – bombardamenti, distruzioni di case, torture ad Abu Ghraib -, poi ci sono i combattenti contro l”occupazione e infine, gli estremisti che fanno i rapimenti. Io sostengo le prime due forme di resistenza ma condanno i rapimenti. Gli iracheni non accettano l”occupazione.Ma se se ne vanno gli americani, e gli altri occupanti, molti pensano che ci sarà una guerra civile…Gli americani lavorano insieme al Mossad per creare uno scontro tra sunniti e sciiti, ma non ci riusciranno perché siamo una società mista. Ma con un governo così debole i rischi di una guerra civile ci sono.Allora è meglio che se ne vadano o che restino, gli americani?Gli americani devono andarsene, dovrebbero essere sostituiti da forze dell”Onu che aiutino veramente il popolo iracheno che è stato vittima di Saddam, che ha sofferto molto durante la dittatura e che continua a soffrire in questa situazione.Anche lei è stato vittima di Saddam. E non solo di Saddam, prima ancora di Aref. La sua storia è quella di molti militanti del partito Baath. Ce la racconti.Sono entrato nel partito fin dall”inizio, nel 1956. Avevo 23 anni. A quei tempi c”era un Partito comunista molto robusto e il Baath, con l”idea forte della nazione araba, voleva rappresentare un”attrattiva soprattutto per i giovani. Per entrare nel partito bisognava avere delle «credenziali» sulla propria onestà e quella della famiglia, venivano scelti solo i migliori. Il lavoro nel partito iniziava in un piccolo gruppo di base che agiva in clandestinità. Dopo qualche anno, chi dimostrava abilità veniva eletto in una struttura superiore, con la responsabilità di un piccolo gruppo che manteneva il collegamento con altri. Il sistema era piramidale. Io lavoravo con il sindacato, clandestinamente fino alla rivoluzione di Qassem (1958). Successivamente, con l”arrivo al potere di Aref molti esponenti del partito Baath finirono in prigione. Anch”io fui arrestato, il 18 novembre del 1963, dopo una settimana mi liberarono ma solo per 10 giorni, mi riarrestarono e finii davanti a una corte marziale con l”accusa di cospirazione contro il regime ma dopo tre mesi mi rilasciarono, facendomi firmare un impegno a non fare nulla contro il governo. Altri nel frattempo erano morti in carcere. Rimasi sotto osservazione per un anno. Nel 1966, il 5 settembre, mi arrestarono di nuovo insieme ad altri leader del partito, tra i quali Saddam Hussein e Ahmad Hassan al Bakr, accusati nuovamente di cospirazione e torturati. Dopo cinque mesi mi rilasciarono perché qualcuno, non so chi, aveva garantito per me. Con l”arrivo al potere di Abdel Rahman Aref, dopo la morte del fratello in un incidente aereo nell”aprile del 1966, era diminuita la pressione sul partito Baath anche se continuavamo a lavorare clandestinamente. Il leader del partito, Ahmed Hassan al Bakr, era riuscito ad ottenere che fossero cancellate le accuse di cospirazione. Grazie a un lavoro di base, il partito era cresciuto e aveva acquisito molta forza, fino alla presa del potere, il 17 luglio del 1968.Con la presidenza di Hassan al Bakr, invece, è andata meglio.Sì, ho potuto mettere a frutto il mio lavoro con il sindacato, prima sono stato nominato capo dell”Unione dei lavoratori dei trasporti, poi sono entrato a far parte dell”Unione dei lavoratori e, nel 1978, sono stato eletto segretario generale del sindacato. In quegli anni ho girato il mondo per rappresentare il sindacato iracheno: dall”Unione sovietica alla Cina, alla Jugoslavia, sono stato anche in Italia.Ma i guai non erano finiti, cosa successe quando Saddam prese il potere?L”assunzione di tutti i poteri da parte di Saddam Hussein – con l”estromissione di Hassan al Bakr, senza l”avallo del partito – non era condivisa da molti dirigenti del Baath. Allora Saddam convocò una riunione di circa 300 dirigenti del partito, ci richiuse in una sala e la fece circondare dai carri armati. Chiamò Mohy Abdul Hussein, che era segretario di al Bakr e membro del Consiglio della rivoluzione che manteneva i contatti con Damasco. Perché a quei tempi si stava lavorando a un progetto di unificazione con la Siria. Saddam lo costrinse a citare tutti i suoi collaboratori. Saddam era contro il progetto di unificazione con la Siria perché questo avrebbe contrastato le sue ambizioni di potere. Man mano che Mohy citava un nome, la persona si alzava e gli agenti del mukabarat (servizi segreti, ndr) lo portavano via. Mohy fu accusato di essere a capo di una cospirazione contro Saddam a favore della Siria, per questo avrebbe tenuto i rapporti con militari siriani. Insieme a Mohy furono accusati di cospirazione anche i 150 esponenti del partito da lui citati e arrestati. Io ero uno dei 150: per arrestarmi mi accusarono di aver preso 50 dinari per partecipare alla cospirazione. Urlai a Saddam che non sarei mai diventato un traditore per 50 dinari. Niente da fare, gli agenti del mukabarat mi portarono via. Mi richiusero in una cella di un metro e mezzo per uno, senza finestre. Si moriva di caldo, mi lasciarono appeso alla parete, per questo ancora adesso soffro di gonfiori alle gambe (e mi mostra una gamba gonfia, ndr). Poi, con gli occhi bendati e le mani legate mi portarono a un interrogatorio, cadevo perché non vedevo nulla, mi picchiavano. Mi interrogarono tre volte e ogni volta mi facevano firmare con l”impronta digitale un verbale che non potevo nemmeno leggere perché ero bendato. Un giorno ci hanno radunati tutti in una sala, ci hanno dato un pezzo di carta su cui avremmo dovuto scrivere la nostra confessione, altrimenti saremmo stati uccisi. E mentre lo stava dicendo, Sadun Shaker, capo del mukabarat, uno dei 55 super-ricercati dagli americani, ora detenuto, aveva sparato a uno dei prigionieri. Ho detto che non avevo nulla da dire. Dopo 15 giorni mi portarono davanti a una corte marziale, ma la seduta venne rinviata. Il giorno dopo mi portarono in una camera delle torture, senza benda agli occhi e senza lacci alle mani. In fondo alla stanza, dietro un tavolo c”era un membro del Consiglio della rivoluzione, mi dissero che sarei stato impiccato perché non avevo testimoniato, volevano i nomi dei miei collaboratori. Risposi attaccando: in tutti questi anni, dissi, noi abbiamo dato la nostra vita per il successo del partito Baath, per permettere a voi di arrivare dove siete e voi ci trattate in questo modo.E come hanno reagito?Improvvisamente Sadun Shaker si alzò, si avvicinò alla corte e disse che non c”era nessuna prova contro di me. Poi mi riaccompagnarono nella mia cella, questa volta senza picchiarmi. Dopo due ore mi riportarono davanti alla corte, c”erano anche gli altri prigionieri, eravamo tutti schierati con il viso contro una parete, mentre la corte annunciava le sentenze: 51 furono impiccati, un”altra cinquantina condannati a pene che variavano da cinque a dieci anni e 51 furono rilasciati. Io ero tra questi ultimi. (Salman però, tornando a casa, non avrebbe trovato la sua famiglia, al suo posto si erano installati agenti dei servizi, subito cacciati dagli uomini del mukabarat che lo accompagnavano (ndr).Poi ha ripreso una vita normale?Sono tornato al lavoro, al sindacato, dove ero ancora segretario generale, ma ho trovato una situazione diversa. Dopo sei mesi furono indette elezioni farsa per buttare fuori tutti i dirigenti in carica. Dopo un anno fui buttato fuori anche dal partito.Non ha mai pensato di fuggire dall”Iraq?Sì, ma ero tenuto sotto osservazione dai servizi, per due anni, e non potevo lasciare il paese. Poi è scoppiata la guerra con l”Iran. Così ho continuato a lavorare al ministero dei trasporti, dove mi avevano anche ridotto lo stipendio del 30% perché non ero più iscritto al partito. Nel 1982 sono andato in pensione.Mentre cerca tra le vecchie foto, Salman trova anche quella fatta quando è andato volontario in guerra contro l”Iran. Per due volte, per tre mesi: la prima nel 1981, quando era ancora membro del partito e quindi faceva parte del Jaish al Shabi (esercito del popolo, le milizie del Baath) e la seconda, nel 1982, come volontario, per tre mesi. Nonostante il trattamento subìto dal regime, lo spirito nazionalista era più forte. E ancora oggi lo è.’

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