A Falluja, la resistenza degli emiri | Giuliana Sgrena
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A Falluja, la resistenza degli emiri

Nel mirino dei missili Usa, mentre le truppe straniere non ci mettono più piede. L''ultimo raid domenica Da simbolo della resistenza a roccaforte isolata, nella città si scontrano diversi gruppi di mujahidin e gli imam fanatici impongono la sharia: d

A Falluja, la resistenza degli emiri
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20 Luglio 2004 - 11.52


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Quattro missili su un edificio a Falluja, domenica scorsa, quattordici vittime, tra cui donne e bambini. Sul terreno un cratere. Non ci sono testimoni: Falluja è off limits per la stampa straniera. Per gli americani si trattava di una base di Zarqawi, considerato il legame iracheno con al Qaeda. E” il sesto raid in cinque settimane. All”inizio il premier Iyad Allawi diceva di essere stato avvisato poco prima dell”attacco, ora invece di aver dato il via libera, quando addirittura non sostiene di aver passato l”informazione al comando Usa. Ma perché tanto accanimento contro Falluja da parte degli Usa e del governo filoamericano di Allawi? Nell”aprile del 2003 la prima rivolta contro le truppe di occupazione americane aveva fatto di Falluja il simbolo della resistenza. Un anno dopo, il pesante assedio imposto dopo l”assassinio di quattro agenti dell”americana Blackwater – poi bruciati e mutilati – e il successivo ritiro degli americani dalla cittadina, rappresentavano la prima vera sconfitta dell”esercito americano. Che ha ispirato in tutto il mondo arabo una «letteratura di resistenza e guerra», come sostiene lo scrittore egiziano Gamal al Ghitani: «Falluja è un simbolo, in uno dei periodi peggiori abbiamo avuto la testimonianza che non è impossibile resistere contro l”America».Ma a questa «sconfitta» americana non è corrisposta una vittoria degli iracheni. Il territorio, dove gli americani non mettono più piede ma che continuano a bombardare, è ora terreno di scontro tra le varie componenti della resistenza e anche del terrorismo. Chi non ha nessun potere è il generale Mohammed Latif, che comanda la Brigata Falluja, composta da ex baathisti, che insieme alla guardia nazionale e alla polizia irachena avrebbe dovuto assumere il controllo della cittadina dopo la fine dell”assedio. Gli americani pensavano che con la «rilegittimazione» dei baathisti – dopo che il proconsole Bremer, un anno prima, li aveva messi fuori legge con una delle mosse più sbagliate della sua gestione – avrebbero diviso la resistenza e invece i militanti dell”ex partito unico, che già sostenevano la resistenza, si sono alleati o almeno convivono con la componente islamista della rivolta. Inoltre, gli americani hanno fatto l”errore di sostituire il capo della brigata, il generale Jasem Mohammed Saleh, più potente e originario di Falluja e quindi con una notevole influenza tra gli abitanti, con l”ex suo compagno di armata, Mohammed Latif, senza potere e tacciato di «collaborazionismo».La «città delle moschee» è quindi nelle mani dei gruppi armati guidati dai vari «emiri», i capi militari, siano essi ex baathisti, imam o capi tribali, riuniti nel Consiglio dei mujahidin, la «shura». Sono gli emiri a spartirsi il «territorio liberato», una sorta di repubblica autonoma che i wahabiti (i fondamentalisti della scuola saudita) vogliono trasformare nel primo emirato dell”Iraq. A imporre l”ordine – a Falluja vige la legge del più forte, che qui è la sharia, la legge coranica – sono soprattutto gli imam. Due sono i capi spirituali dei mujahidin, il più controverso è l”imam la Janabi, estremista e fanatico, alla cui moschea, Saad bin Abi Waqas, fanno riferimento anche i combattenti arrivati da altri paesi islamici. Con maggiore autorità religiosa e rispetto da parte dei capi tribali è invece l”imam al Obeidi della moschea al Hidra al Mohammadiya.Falluja, una cittadina con 200.000 abitanti, si trova a cinquanta chilometri a ovest di Baghdad, sulla strada per la Giordania, e proprio grazie a questa sua posizione ha sviluppato commerci, una industria di trasporti fiorente oltre alla produzione di materiali da costruzione, che alimentano anche l”edilizia locale. Nonostante si trovi su una delle vie di comunicazione principali del paese è però sempre rimasta una città chiusa alle influenze esterne, conservatrice, molto religiosa – con uno stile di vita scandito dalle fatwa: niente alcol, nessun cinema e tutte le donne velate – e punto di riferimento per i sunniti i cui leader si sono formati nelle scuole coraniche che affiancano le numerose moschee. Per questo qui hanno attecchito i gruppi di wahabiti alla conquista dell”Iraq, quando ancora c”era Saddam. Gli americani hanno fatto il resto.Nell”aprile del 2003, Falluja non aveva combattuto contro l”invasione, i capi religiosi e tribali avevano trattato: le truppe americane sarebbero rimaste fuori dalla città e nessuno avrebbe dato loro fastidio. Invece i soldati di Bush erano entrati, avevano occupato una scuola, la gente aveva protestato e si era vista sparare addosso: 16 morti e numerosi feriti. Era la fine di aprile del 2003, immediata la ribellione. Da allora Falluja è diventata il simbolo della resistenza irachena. Cresciuta man mano che gli americani intervenivano con continue violenze, abusi e punizioni collettive: entravano nelle case di notte, buttavano giù donne e bambini dal letto, arrestavano chi trovavano. Non hanno esitato a sparare su poliziotti iracheni, a lanciare missili contro le fattorie di campagna e persino contro le moschee. E, più recentemente, le immagini delle torture ad Abu Ghraib, il carcere che si trova a pochi chilometri da Falluja, hanno ulteriormente esasperato gli animi. Ma non sono riusciti a piegare la resistenza che qui era alimentata soprattutto da ex baathisti, da nazionalisti della prima ora e da imam, che grazie alle moschee godono di un pulpito per arringare i fedeli, oltre che di una base logistica per il reclutamento e il finanziamento della guerriglia. Gli imam oltre che a fomentare la rivolta impongono anche la sharia: a Falluja vige la legge coranica nella versione più drastica mutuata dai taleban. Gli editti sono appesi ai muri della città: alle donne non basta più portare il velo, devono essere completamente coperte dall”abaya di tradizione sciita ed è loro vietato il trucco, così come per tutti è proibito l”alcol, la musica, e i costumi occidentali. Sono stati saccheggiati negozi di Cd, non quelli di alcool perché sono sempre stati clandestini ma ora i bevitori vengono frustati in pubblico, e i parrucchieri minacciati.«Questa è una città conservatrice, noi siamo tradizionalisti, ma questo è il terrore», ci racconta un vecchio conoscente di Falluja, che ci scongiura di non andarlo a trovare perché non è più in grado di garantire per la nostra sicurezza: la città è in mano a bande contrapposte che hanno vietato l”accesso a tutti gli stranieri. E le notizie che noi riusciamo ad avere ci arrivano solo attraverso chi viene da Falluja o dai giornalisti locali. I check point sono in mano ai mujahidin che vedono spie dappertutto e per le spie non c”è scampo. Siano esse straniere o irachene, gli «spioni iracheni» sono stati sgozzati in pubblico. E «l”emirato dei mujahidin» non poteva non attirare i mujahidin venuti da fuori, più interessati a combattere il loro jihad contro gli americani che a liberare il paese dall”occupazione. Una situazione, quella di Falluja, favorevole anche ai giochi sporchi dei servizi segreti dei paesi vicini. Così la situazione si è fatta sempre più incontrollabile e in certi casi il potere è finito nelle mani di fanatici sanguinari che hanno trasformato azioni di resistenza in pura violenza. Il sequestro e l”uccisione di ostaggi, la caccia allo straniero, gli sgozzamenti, l”uccisione di sei camionisti iracheni sciiti, partiti da Sadr city, che stavano portando rifornimenti a una base americana, i loro corpi atrocemente mutilati, come hanno mostrato le foto pubblicate sui giornali locali, hanno aperto uno scontro con gli sciiti, che hanno risposto uccidendo tre sunniti di Falluja. La cittadina è isolata e l”isolamento dà sempre più potere ai fautori della «talebanizzazione».In questa situazione si inserisce la caccia a Zarqawi. Gli americani continuano a bombardare edifici con il pretesto di colpire basi terroristiche, anche se le vittime sono civili e svelano il vero obiettivo: quello di distruggere una roccaforte della resistenza. Che il terrorismo si sia diffuso in Iraq dopo la guerra e con l”occupazione non ci sono dubbi. Poco importa se sia guidato da Zarqawi o qualcun altro, o se la base principale sia Falluja o Ramadi, quel che è certo è che rappresenta un pericolo soprattutto per gli iracheni, non solo perché sono iracheni le vittime degli attentati terroristici, ma anche perché inquina la resistenza e ne «distorce» l”immagine, come ha detto sheikh al Samarrai un paio di venerdì fa alla moschea Um al Qora di Baghdad. Quali siano i legami tra la resistenza e gruppi di stranieri più o meno legati ad al Qaeda è difficile da verificare, sicuramente i metodi di lotta e gli obiettivi sono diversi. Per questo la presa di distanze dal terrorismo è sempre più netta in Iraq, anche da parte di coloro che la resistenza armata la sostengono.Il governo iracheno, seppure ad interim e senza una reale sovranità, non può tollerare zone che sfuggono totalmente al suo controllo – e anche a quello degli americani – come Falluja. Che sicuramente è il caso più eclatante ma non l”unico – il leader radicale sciita, Muqtada al Sadr, per esempio, controlla il centro di Najaf e, in collaborazione con la polizia, anche Sadr city, il più grande agglomerato di Baghdad. Quello che si paventa per l”Iraq non è più solo una balcanizzazione con la divisione tra nord kurdo, centro sunnita e sud sciita, ma una frantumazione del territorio con la creazione di emirati e «territori autonomi» al di fuori di ogni controllo, anche degli iracheni.’

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