Voci da Peshawar

Reportage dai mercati di Kharkana e di Hayatabad, vicini al confine con l''Afghanistan. I profughi afghani attraversano le frontiere, ormai chiuse da tempo, pagando profumatamente i contrabbandieri. E affollano i pochi telefoni pubblici per ore cerca

Voci da Peshawar
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12 Ottobre 2001 - 11.52


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“Domenica sera, erano da poco passate le nove quando un tonfo enorme ha mandato i vetri della nostra casa in frantumi, sono seguiti spari e lampi. All”inizio pensavamo che si trattasse dei festaggiamenti per l”arrivo del re Zaher Shah riportato a Kabul dagli americani. Ma poi ci siamo resi conto che erano missili e bombe”, racconta Mohammad Anees, 26 anni. Era tornato a casa per portare via la sua famiglia dai temuti bombardamenti, perché lui due anni fa aveva dovuto abbandonare gli studi di ingegneria civile per motivi economici ed era venuto qui a Peshawar in cerca di lavoro. Si occupa di computer.”La nostra casa a Kabul si trova nella zona di Dorul Aman, ad appena due chilometri dall”aeroporto, al centro degli attacchi, continua. Abbiamo cercato di vedere cosa era successo, ma la zona è stata immediatamente isolata. Visto che noi eravamo tutti salvi la mattina alle sei, nel timore di nuovi attacchi, siamo partiti, in sette, è rimasto solo mio padre, perché abbiamo dovuto lasciare tutto lì. Ora non riusciamo ad avere sue notizie”. Man mano nella piccola casupola di fango, raggiunta attraversando un sorta di cortile con fetide fogne a cielo aperto, tutta la famiglia si raduna intorno a noi, i bambini piccoli urlano. “Con la macchina abbiamo raggiunto la frontiera di Torkham (che è chiusa) e da lì abbiamo camminato per cinque ore sulle montagne, con i bambini che piangevano, c”era chi urlava perché non ce la faceva più, ma alla fine siamo arrivati in Pakistan”.I profughi per trovare il passaggio giusto e non imbattersi con le guardie pakistane, devono ricorrere all”aiuto dei contrabbandieri pagando 2.000 rupie (circa 60.000 lire) a testa, prima, quando la frontiera era già chiusa ma il controllo meno rigido occorrevano 5.000rupie (150.000 lire) per corrompere la polizia di frontiera. E adesso che farete? “Non ci resta che pregare”, risponde Muhammad. Anche perché la polizia pakistana che controlla il campo si è accorta della nostra presenza e ce ne dobbiamo andare in fretta. Mohammad ci accompagna: “La guerra non è la soluzione dei problemi dell”Afghanistan, nemmeno Zaher Shah e tanto meno l”Alleanza del nord, li abbiamo già provati. E poi i taleban si riteranno sulle montagne e resisteranno, dovesse durare venti o trent”anni”, sostiene convinto senza nascondere la sua simpatia per gli ultraintegralisti. Allora qual è la soluzione? “Un governo in cui siano rappresentate tutte le etnie dell”Afghanistan”. Come arrivarci? “Con la Loya Jirga”, la tradizionale struttura tribale usata per risolvere le controversie.Siamo a pochi chilometri dal confine afghano, dove si trova il Kharkana market, il centro di smistamento di tutto il contrabbando afghano, qui le merci vengono raccolte e poi distribuite in tutto il Pakistan. Ci spostiamo di pochi chilometri e a Hayatabad, dopofile di case ordinate, ci troviamo al centro di un grande bazar, negozi e negozietti, un commercio fiorente, gestito tutto da afghani che contrariamente a quelli dei campi profughi sono più ricchi o comunque i soldi se li sono fatti con il “business”. Ci avviciniamo ad un telefono pubblico, una stanzetta affollata, tutti quelli che passano nella via stretta gettano un occhio, una battuta. Tutti vogliono notizie dall”Afghanistan, subito dopo i primi attacchi era impossibile chiamare, ora a volte e dopo numerosissimi tentativi si riesce, si pagano 20 rupie per minuto (circa 600 lire). Tra gli avventori l”unica donna è Kamelah, 42 anni, è arrivata qui il 10 settembre, il giorno prima degli attentati terroristici negli Stati uniti. Era venuta per ritirare i soldi che la sorellache vive e lavora a Londra manda per tutta la famiglia. Perché non a Kabul? “Perché non è facile farsi mandare soldi in Afghanistan e soprattutto essendo donna non li potrei ritirare”. Così di tanto in tanto si faceva le dieci ore di autobus che separano Kabul da Peshawar in tempi normali per ritirare quel gruzzolo che basta loro per vivere. Il suo viso è molto triste, a Kabul ha lasciato la madre, la sorella e due figlie. Alla fine riesce a parlare con casa sua, stanno tutti bene, ma questo non basta a consolarla, i bombardamenti continuano. Molte altre volte il telefona squilla a vuoto, molte persone hanno abbandonato le loro case.L”unico ad avere fretta sembra Mohammed Yusuf, 35 anni, appartiene alla potente tribù degli Afridi che vivono nella zona di frontiera che sfugge ad ogni controllo e dove non vengono pagate nemmeno le tasse. Arriva pieno di telefoni e pezzi di ricambio per strumenti elettronici. Professione? Manco a dirlo: businessman, ovvero contrabbandiere, un lavoro che fa da dieci anni. Per lui le bombe sono un intralcio nel lavoro: ha tre container bloccati in Iran, per un valore di 1,4 milioni di dollari e deve pagare 100 dollari al giorno per la loro protezione, spese che vanno ad intaccare il suo guadagno sul carico, circa 85.000 dollari, dice. Si tratta di vestiti e biancheria da uomo, il primo rifornimento dagli Stati uniti, di solito la merce la comprava in Giappone, Malesia e Hong Kong. “Ho mandato mio fratello negli Stati uniti a comprare la merce che poi è stata spedita a Dubai e da lì in Iran, certo non potevo immaginare quello che sarebbe successo”. Ma il suo business non si ferma ai vestiti, importa anche materiale elettronico. E le armi? “Non serve, quelle le fabbrichiamo noi”, dice sicuro. Si allontana non prima di averci dato il telefono del suo magazzino a Peshawar, da dove rifornisce tutto il Pakistan. In questa zonal”illegalità è la regola.Non è l”unico businessman nel piccolo consesso che si è formato presso il telefono pubblico. Anche per Jamil è diventata l”unica alternativa dopo che ha abbandonato il Badashkhan, dove si era ritirato dopo aver lavorato per dodici anni al ministero della difesa afghano, fino a quando c”è stato Najibullah, dopo essersi addestrato a Mosca e a San Pietroburgo, che preferisce però continaure a chiamare Leningrado. Odia i taleban e definisce l”Alleanza del nord un po”meno peggio. Quando lui e la sua famiglia hanno deciso di fuggire, lungo la strada sono stati picchiati e insultati dalle milizie taleban. Ma alla fine, con un tratto a dorso di mulo, il 15 settembre sono arrivati qui, attraverso la strada di Shah-i-saleem che poi è stata chiusa dai pakistani. Racconta che nella zona dove viveva il deposto re Zaher Shah, che ora vieneproposto come possibile capo o garante di un governo di transizione, era molto popolare, ma non i capi dell”Alleanza del nord, né Rabbani e nemmeno Massud, prima di essere stato assassinato. Anche altri due giovani, arrivati qualche giorno fa da Kabul, condividono l”ammirazione di Jamil per Najibullah, l”unica soluzione per l”Afghanistan, secondo loro che consideravano il dottor Najib soprattutto un buon nazionalista e musulmano. Peccatoche dopo la cattiva sorte toccatagli per mano dei taleban non ci sia un altro leader in grado di interpretare le sue idee, “sono tutti fuggiti all”estero”, commenta rassegnato Jamil. Con l”approvazione di Javed Ghafouri, uno studente di 22 anni, che sostiene che se gli attacchi fossero veramente contro i taleban andrebbero pure bene, macontro la popolazione no; e di Said Mohammed, 23 anni, che faceva il pugile ma aveva paura di battersi con i taleban. Affermazioni che infiammano il proprietario del bugigattolo, Lutfullah, che tra una telefonata e l”altra si lancia in una strenua difesa dei taleban e di Osama bin Laden.Chi invece disprezza profondamente Osama bin Laden è l”autista che ci ha accompagnato in questo giro, e che lo ha conosciuto nel 1986 quando era un mujahedin che combatteva contro le truppe sovietiche e per qualche anno ha avuto frequenti contatti con quello che considera una caricatura degli americani: ha lavorato per gli Stati uniti e si è arricchito con gli Stati uniti. Noor, aveva 18 anni quando è diventato mujahedin e per dodici anni ha combattuto per la jihad (guerra santa), e in quegli anni ha conosciutoRabbani, Hekmatyar, e mullah Rabbani, il vice di mullah Omar che è morto quattro mesi fa. Finita la jihad ha potuto ottenere un visto per gli Usa e per quattro anni ha lavorato nel Bronx. Poi è tornato qui a Peshawar, dove fa il “trasportatore”, con moglie e quattro figli. Il suo viso emaciato nascosto da una lunga e incolta barba, vestito tradizionale, non tradisce nessuna emozione quando parla del suo paese e avendo conosciuto i protagonisti sulla scena non mostra nessuna speranza per l”Afghanistan.’

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