Persecuzione razziale a Kabul

Gli hindu hanno paura: sotto i taleban erano marchiati di giallo, ma la discriminazione era iniziata sotto i mujahedin

Persecuzione razziale a Kabul
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25 Maggio 2001 - 11.52


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“Non avrei voluto tornare a Kabul, ma in Turkmenistan, dove ero arrivato dall”India, non mi hanno dato il visto per la Russia e mi hanno rispedito qui”. Ravinder Singh, 39 anni, sikh è appena arrivato nella capitale afghana, lo incontriamo nel tempio Singh Saba, nel centro della città. Anche lui se n”era fuggito in India come molti altri hindu nel 1992, quando erano arrivati i mujahidin. Allora la comunità hindu era composta da 20.000 famiglie, ora ne sono rimaste 500 di cui una sessantina a Kabul, gli altri si sono dispersi in diversi paesi europei, negli Stati uniti e in India. Non hanno molta fiducia nell”Alleanza del nord perché i loro guai sono cominciati proprio quando i mujahidin erano arrivati al governo per la prima volta nel 1992. “Non era tanto il governo del presidente Rabbani a prendere provvedimenti contro di noi ma in quel clima di anarchia i mujahidin forti delle loro armi ci minacciavano, hanno anche occupato alcune nostre case che non ci sono più state restituite”, racconta Ravinder Singh. Ma i tempi peggiori sono arrivati con i taleban, che hanno raggiunto il culmine un anno fa quando il Ministro per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù ha cercato di imporre a tutti gli hindu di portare sull”abito e anche sulla casa un segno distintivo giallo – preferibilmente il turbante – per distinguersi dai musulmani. Il provvedimento che aveva fatto grande scalpore anche perché preso subito dopo l”infamia della distruzione delle statue di Bamyan era poi stato ritirato dal ministro Bil Maruf in seguito a un ricorso della comunità, racconta Ravinder. Altre restrizioni erano riservate agli hindu, come la chiusura delle loro scuole e quindi l”impossibilità di studiare anche per i ragazzi, visto che i taleban permettevano solo le madrasa, scuole coraniche. “I nostri bambini ora parlano solo punjabi e non hanno avuto la possibilità né di studiare il farsi o il dari, tanto meno l”inglese e la matematica”, lamenta Ravinder. Le donne hindu, che non hanno mai portato il burqa, non potevano invece uscire di casa: era loro permesso solo di recarsi al tempio. La comunità è dedita soprattutto al commercio e ai tempi di Najibullah aveva raggiunto un certo benessere, allora, ricorda con rimpianto Ravinder, “godevamo di tutti i diritti e anche di facilitazioni per il nostro lavoro, l”economia afghana era fiorente e ci volevano 1.500 afghani per un dollaro, ora ce ne vogliono 39.000″. Ora, con la chiusura delle frontiere la situazione è disperata, molti hindu sono rimasti senza lavoro e senza mezzi di sostentamento.Qual è la condizione perché gli hindu tornino in Afghanistan? “Un governo democratico. Se tornerà re Zahir Shah e ci sarà un governo democratico tutti gli hindu che sono fuggiti in India torneranno”, ci risponde Singh. Quasi un miraggio, anche se qui sono in molti a pensare che la presenza di Zahir Shah, non tanto quanto re ma come uno degli anziani più autorevoli, potrebbe favorire la formazione di un governo con una base ampia e rappresentativo di tutte le etnie. Ma è possibile immaginare un governo democratico? “Solo con l”appoggio delle Nazioni unite, sarà possibile”. E Ravinder Singh è anche convinto che i bombardamenti americani siano serviti alla sconfitta dei taleban.Per ora, comunque, la comunità hindu che dopo l”arrivo dei mujahidin e soprattutto dei taleban, è considerata una popolazione di serie B, si trova ad affrontare anche problemi di sopravvivenza. E non ha mai ricevuto, dice Ravinder, nessun aiuto dalle Nazioni unite e dal Programma alimentare mondiale, nonostante gli appelli loro rivolti.Intanto è ricominciato da tre giorni l”arrivo a Kabul di convogli del Programma alimentare mondiale da Peshawar: ieri sono arrivati 27 camion con 774 tonnellate di grano. La distribuzione, che avviene nella zona intorno a Kabul, dovrebbe alleviare la miseria di questo Ramadan per molte famiglie. Resta drammatica la situazione negli ospedali pubblici dove Emergency in questi giorni sta distribuendo oltre a medicine, sacche di sangue e testi per l”Hiv, di cui le strutture ospedaliere non dispongono, anche cibo. Inoltre, Gino Strada ci spiega che Emergency sta programmando l”invio di aiuti anche a Konduz, dove ieri sarebbe iniziata la resa dei taleban. E persino a Kandahar, su richiesta proprio dei taleban che hanno proposto all”organizzazione italiana anche di organizzare uno scambio di prigionieri. Intanto l”ospedale di Emergency a Kabul, riaperto qualche giorno prima dell”arrivo dell”Alleanza del nord, si sta riempiendo, anche se non è ancora al completo (i posti letto sono 120). Ma lo sarà presto visto l”aumento anche degli incidenti provocati dallo scoppio delle mine. Tra i degenti troviamo anche una vittima dei bombardamenti americani, il suo bus è stato centrato una decina di giorni fa da una bomba sganciata da un elicottero: 19 morti e 8 feriti. E un civile rimasto vittima degli scontri di Maidanshar, a una quarantina di chilometri da Kabul, dove, ieri, al termine di tre giorni di combattimenti i taleban e gli “arabi” che resistevano asserragliati sulla montagna hanno deciso di arrendersi. La struttura di Emergency appare come un”oasi nel caos e nella distruzione. Tra i circa 200 dipendenti vi sono anche una quarantina di donne, molte delle quali vedove o handicappate perché vittime delle famigerate mine di cui è disseminato il paese. Anche uno dei due medici è donna: Gulnor, 30 anni, ha studiato a Kabul quando ancora le donne avevano accesso all”Università. Sono molte le donne medico che in questi anni non hanno potuto esercitare la loro professione, ricorda Gulnor, ma ora si spera che, almeno da questo punto di vista, la situazione possa migliorare.’

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